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Vibo Valentia tra Cinquecento e Settecento

vibovalentiastemmadi Giuseppe Chirico – Il 7 maggio 2021 il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha proclamato Vibo Valentia “Capitale italiana del libro per il 2021”. L’importante riconoscimento è avvenuto a distanza di un mese dall’elezione di Tropea come “Borgo dei Borghi 2021”, ed è stato seguito, pochi giorni dopo, dalla vittoria di Martina Greco, studentessa del liceo classico vibonese “Michele Morelli”, alle Olimpiadi nazionali di lingue e civiltà classiche. Eventi, questi, che inorgogliscono tutti i calabresi, da non interpretare come traguardi, ma piuttosto come punti di (ri)partenza per rinsaldare il rapporto, tanto solido e antico quanto a volte negato o vituperato, tra la Calabria e la cultura. Ed eventi che – a proposito di libri – offrono uno spunto per omaggiare Vibo osservandone le descrizioni fatte da alcuni autori forestieri in età moderna, periodo in cui peraltro si collocano le opere dei due illustri storici locali Giuseppe Capialbi (1659) e Giuseppe Bisogni de Gatti (1710), interamente dedicate alla città.

«Subinde est Montileonum oppidum»: inizia così la descrizione di Monteleone – che nel 1928 assumerà l’attuale denominazione di Vibo Valentia – ad opera del primo storico della Calabria, Gabriele Barrio, nel De antiquitate et situ Calabriae del 1571. L’autore, originario di Francica e appartenente all’Ordine dei Minimi, esalta in particolare i commerci e la ricchezza delle produzioni agricole del territorio, tra le quali spiccano frumenti, zucchero e olio («Ager hic frumenti & aliarum frugum ferax est. Fit saccarum, & sesama, & oleum clarum»). Sono poi menzionate attività come la caccia di pernici e fagiani («perdicum & phasianorum aucupia») e la rinomata pesca dei tonni («extant verricula thynnaria»), ricordando quanto siano pregiati gli esemplari catturati nel golfo ipponiate, oggi detto di Sant’Eufemia («bonitate thynnorum hipponiatis sinus»). Fanno parte del contado di Monteleone, a quel tempo, i villaggi di Piscopio, San Gregorio, Vena, Triparni e Longobardi: a proposito degli ultimi due, il Barrio segnala l’estrazione della selenite a Triparni («Treparnum, ubi lapis specularis nascitur») e la produzione di lino a Longobardi («Longoburgum cum linis non ignobilibus»).

Nella Descrittione del Regno di Napoli, lavoro del 1586 del napoletano Scipione Mazzella, si legge che «Hipponio, che i paesani chiamano Monteleone», «siede in un bel sito con molte campagne intorno». È ricordata l’origine magnogreca di Vibo, che «era di giro 8 miglia, & era fabricata tutta di mattoni come hoggidì mostrano le sue roine»: e «la chiamarono Hipponium, per esser ella stata edificata à similitudine d’uno cavallo, percioche ιπππος in lingua Greca vuol dire cavallo».

Le descrizioni del Barrio e del Mazzella si riferiscono alla seconda metà del Cinquecento, periodo in cui, a Monteleone, si registra un significativo incremento demografico. In un cinquantennio si passa infatti dai circa 7.195 abitanti del 1545 ai circa 7.380 del 1561, per poi giungere a una popolazione di circa 9.865 abitanti nel 1595. Sul finire del XVI secolo, operando qualche paragone, a Reggio si contano quasi 16.000 abitanti, a Cosenza 10.745, a Catanzaro 10.670 e a Crotone 3.615; sempre nel 1595, Tropea annovera un centinaio di residenti meno di Reggio, e, tra i centri più popolosi dell’odierna provincia vibonese, Briatico conta 4.405 abitanti, Mileto 4.120, Nicotera 3.350, Arena 3.175, Soriano 1.910 e Pizzo 1.490 (tali cifre, arrotondate, sono approssimative perché le fonti storiche riguardano i nuclei familiari anziché i singoli individui: in questi casi, in demografia, si usa moltiplicare il numero delle famiglie per un coefficiente standard di 4,5 persone).

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Nel 1601 viene pubblicata una nuova edizione della Descrittione di Mazzella, in cui Bivona, «antico porto d’Hipponio», risulta «ornata di bellissimi giardini, di cedri, e d’aranci». La città altresì appare «ricca di vaghe, e dilettevoli campagne, che da ogni parte la circondano d’intorno», e il suo territorio è «molto fertile, perche produce grano, orgio, fave, cecci, & altre vittovaglie». Una menzione particolare spetta alla produzione dello zucchero, poiché «vi si piantano anco gran copia di cannameli, cosa rara in Italia». Dal punto di vista dell’amministrazione feudale, Monteleone «è ornata […] della dignità del Ducato». Da qui, la descrizione di Mazzella prosegue in direzione di Serra San Bruno, citando prima Soriano, «che tiene titolo di Contado», e poi Arena, per terminare «sopra le montagne Apennine» al «ritto Monastero di S. Stefano del Bosco, opera di Ruggiero Normanno, dove si conserva […] con molt’altre reliquie il corpo di S. Bruno».

Al 1601 risale anche Croniche et antichità di Calabria, pubblicato a Padova da fra’ Girolamo Marafioti di Polistena. Nell’opera si legge che, a un paio di miglia dal castello di Briatico, «si vede nel mare il porto di Vibone, dove è fabricato un nobile castello» che rappresenta la «sola fortezza, e sola guardia del porto, e di tutte le circonvicine maremme». In quelle acque «si pescano tunni, & altri pesci di varie sorti». A circa tre miglia «dal castello di Vibone, e del suo mare si ritrova una città nobile», Monteleone, che insiste «in luogo alto, in aria molto salutifera, e piacevole», e però «non è situata nell’antico, e primo luogo, ma in parte vicina a quello». Il Marafioti, da uomo di chiesa, non può non criticare l’assenza di una sede episcopale vibonese, perché «hoggi la città è molto popolosa, e nobile, & essendo così ricca come ella è dovrebbe procurare con ogni istanza d’havere Vescovo particolare, come hanno molte altre città di Calabria, di gran lunga inferiori à lei». Il feudatario di quel tempo è don Ettore Pignatelli, «Duca non meno celebre per la nobiltà del sangue, che nobile per le cose della religione, vivendo sotto la di lui protettione con larghissime elemosine tanti religiosi, e poveri di Dio». Di tutto ciò «ne ponno fare piena fede l’insegne de’ suoi pignatelli» (le tre pignatte raffigurate nello stemma di famiglia) «poste nella Chiesa di S. Maria di Giesù, dove à sue spese vivono i monaci del nostro ordine, & infino ad hoggi si fanno le magnifiche fabriche del monasterio»: il Marafioti appartiene infatti ai frati minori osservanti, ordine religioso per cui i Pignatelli hanno finanziato la realizzazione del convento e della citata chiesa, detta anche Santa Maria la Nova. Attorno alla città vi sono i casali di «Piscopio, S. Gregorio, Triparno, Longovardo, e S. Onofrio, dove si ritrova edificato un’antico monasterio dell’ordine di S. Basilio, nel quale infino ad hoggi dimorano i monaci». Le campagne circostanti abbondano «di perfettissimo frumento, e d’ogni altra sorte di biade», e «nella banda verso’l mare si fa zuccharo, e la sesama, e tutto’l territorio è attissimo alle caccie di diversi uccelli».

Un altro francescano nonché insigne storico calabrese, il cappuccino Giovanni Fiore di Cropani, nel suo Della Calabria illustrata – pubblicato postumo nel 1691 – descrive Monteleone come «Città riguardevole nella Calabria Ulteriore». La Vibo Valentia del Seicento è infatti una «Città molto mercantile, e rinomata non pur per dentro, ma per fuori la Provincia». È «fiancheggiata da molti Villaggi, che la tengono molto abbondante nel vivere, e sono S. Gregorio, qual poi si riparte in molte membra, Triparni, Longovardo, Piscopio, Vena di sopra, Vena di sotto, S. Pietro»; in aggiunta a questi, «vi si annoveravano Stefanacoli, e S. Demetri, che poi smembrati da’ Rè Regnanti, furono dati a loro Famigliari».

Della seicentesca Monteleone tratta in maniera più dettagliata Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, opera postuma dell’abate romano Giovan Battista Pacichelli pubblicata nel 1703. Le «rive piacevoli del Tirreno» vibonese sono tutte «un vago Giardin di Fiori, e delle specie più rare, e più nobili degli Agrumi, moltiplicati anche in un sol ramo con artificiosi innesti». In mezzo a questa rigogliosa vegetazione si scorge «un picciol’ e ben disposto Palazzo, che chiaman di Santa Venere», e dista circa tre miglia dalla città. Questa, che sorge in un «sito eminente, dalle fortificazioni naturali», possiede chiese «miste di vago, e divoto», e presenta strade «regolatissime» così come «le Case, le Botteghe, e i Palazzi», tanto da sembrare «la Capitale di Napoli ridotta in compendio». Dalle sue «Pasticcierie» e «dalle altre Officine si provvede à qualsisia desiderabile comodità», com’è dimostrato dalla presenza di «Fondachi de’ Drappi, e Panni ancor forastieri», e dai «compositori, e venditori di Cera, gli Orefici, e Giojellieri in tal numero, e con tanta mercatanzia, che vagliono à satollare l’intiera Provincia». Vi «trafican publici Negozianti, ancor con le più lontane, e più sicure corrispondenze», e i migliori fra i cittadini gareggiano «con la Nobiltà, che si scorge per pura, e si fanno buone comparse in varie Carozze». Il «Castello, ò Palazzo del Duca» è «regolato, e sublime», e appare «di vecchio disegno, con più Quarti, e Galleria di cose di pregio»: all’interno di quest’ultima i Pignatelli «serbavan lo Spadino col pomo d’oro, tutto gemmato, di cui un solo Diamante prezzavasi quindici mila scudi», che era stato donato «di propria, e Regal mano» dal re francese Luigi XIII «al Duca predecessore, che condusse in Parigi al Trono la Sposa Infanta di Spagna». Al feudatario spetta il privilegio di regolare il mercato della seta, i cui prezzi vengono comunicati al pubblico «pochi giorni prima della Fiera publica di Soriano, che suol cadere annualmente agli otto di Agosto». Diverse «riserve di Caccie, e Fagiani» costellano i dintorni di Monteleone, dove «si gode temperie d’aria, e stanza gradevole, perche si rinviene ciò che fa d’uopo, ò traportato, ò prodotto». A un quarto di miglio dalla città si estende «un largo passeggio fra’ pioppi alti, ed ombrosi, capace di cinque Carrozze in fila, che dalla picciola Chiesa della Maddalena riceve il nome, e i Popolari dimandan l’Affaccio quasi novello Posilipo, sovra Santa Venere già descritta: per ove si può anche scender al Mare, e gustarvi nelle Salsedini, dell’Acqua dolce, ed esquisita di una sorgente».

Un’ultima menzione, utile, ai nostri fini, per arrestare la trattazione agli albori dell’età contemporanea, si trova nella Istorica descrizione del Regno di Napoli del 1795 dell’incisore Giuseppe Maria Alfano, ripubblicata nel 1823. In seguito al terremoto del 1783, la città «vedesi ora collocata parte in un pendìo, e parte in un piano poco inclinato: da una parte guarda il Ponente, e dall’altra il Mezzogiorno, e Levante». Le si «oppone una Collina da Tramontana, dove principia il Paese, sulla sommità della quale vedesi un forte Castello, ora in parte rovinato dal tremuoto». Monteleone «è cospicua per l’amenità del sito, ed abbondanza del Trafico», e «fa di popolazione 7.166», mentre nell’edizione del 1823 sono indicati 7.268 abitanti. La versione aggiornata dell’opera ricorda che la città «soffrì non pochi danni col terremoto del 1783», e «vi è un antico Castello Ducale mezzo diruto con più quarti». Riprendendo l’abate Pacichelli, si segnalano nuovamente, oltre all’«aria buona» del sito, le «molte larghe strade con vaghe botteghe, e un ampio passeggio tra pioppi alti, e ombrosi, capace di cinque carrozze in pari, e lungo un quarto di miglio, che sembra una piccola Napoli in compendio». Le principali produzioni agricole locali, a distanza di secoli, sono ancora «grani, granidindia, frutti, vini, olj, ortaggi, e gelsi».

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