Chiesti 20 anni di reclusione per il boss di Melito Porto Salvo, Carmelo Iamonte

iamontecarmeloIl sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Antonio De Bernardo, ha chiesto 20 anni di reclusione per il boss Carmelo Iamonte, ritenuto l'attuale capo dell'omonima e potentissima cosca di Melito Porto Salvo, Comune dell'Area Grecanica. Il pm antimafia, che da anni esegue indagini sulla fascia jonica reggina, ha chiesto il massimo della pena previsto per chi è imputato in un procedimento celebrato con il rito abbreviato. Davanti al Gup Antonino Laganà, infatti, vi sono i soggetti alla sbarra dopo l'operazione "Replica". Dieci anni sono stati richiesti invece, per Gianpaolo Chilà, Bartolo e Francesco Verduci, accusati di essere affiliati alla cosca di Melito Porto Salvo. Oltre alle richieste di condanna, il pm De Bernardo ha chiesto e ottenuto la riunificazione di questo procedimento, scaturito dall'inchiesta condotta dia Carabinieri reggina e denominata "Replica", con il processo attualmente in corso di svolgimento sempre dinnanzi al gup Laganà e che vede alla sbarra quasi cento imputati coinvolti nella maxi inchiesta denominata "Ada-Sipario". Per il pm infatti erano evidenti i rapporti di connessone fra i due processi. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, avrebbero consentito di confermare e documentare che la cosca, nonostante i colpi inferti recentemente con le operazioni "Crimine", "ADA" e "Sipario", abbia persistito in un'infiltrazione pervasiva all'interno della comunità, riuscendo a condizionarne le attività economiche e le scelte politiche. Le investigazioni hanno focalizzato l'attenzione sulle attività della cosca ed hanno consentito di accertare che la potente organizzazione criminale, con strumenti, condotte e dinamiche tipiche e consolidate della criminalità organizzata avrebbe condizionato le attività imprenditoriali nel settore edilizio, sia pubblico che privato, attraverso il controllo di imprese locali e, più in generale, tutte le attività produttive, subordinando al proprio benestare e consenso l'inizio di qualunque attività economica, attraverso il pagamento del pizzo e l'imposizione delle forniture e della manodopera; ed ha, in alcuni casi, indirizzato l'aggiudicazione delle gare d'appalto e lavori in favore di imprese riconducibili alla cosca.

Alla base del provvedimento di fermo della Procura Distrettuale che colpì Iamonte e gli altri, vi era il pericolo di fuga degli indagati, che erano al corrente del rapporto di collaborazione instaurato da Giuseppe Ambrogio con la magistratura anche prima dell'esecuzione dell'operazione "Sipario". Nel corso dell'indagine è emersa, inoltre, la facilità con cui gli affiliati asseriscono di poter accedere ad informazioni a carattere riservato, unitamente alla consapevolezza degli stessi, ed in particolare di Gianpaolo Chilà e Carmelo Iamonte, di divenire oggetto di provvedimenti di carcerazione. Carmelo Iamonte, infatti, temendo di essere nuovamente colpito dall'ennesimo provvedimento giudiziario di carcerazione, provvedeva periodicamente alla bonifica della propria abitazione.

L'attività di indagine, avviata nel dicembre del 2013, si inserisce in una più ampia manovra investigativa condotta negli anni dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria nel contrasto della 'ndrangheta nelle articolazioni territoriali storicamente egemoni nel comprensorio di Melito di Porto Salvo (RC) ed ha consentito di documentare che attualmente Carmelo Iamonte è il capo indiscusso dell'omonima cosca. In relazione alla figura di quest'ultimo, dalle investigazioni è emerso in sintesi che è lo stesso Iamonte che si attribuisce il ruolo di capo assoluto del sodalizio, nella misura in cui afferma che, se lui fosse stato libero, non sarebbero di certo stati commessi i gravi errori nella gestione del sodalizio che avevano condotto all'operazione "ADA"; Iamonte è partecipe dei destini della sua organizzazione, anche quando le vicende giudiziarie non lo toccano direttamente; il carisma di Iamonte è tale che a lui si sarebbe rivolto perfino un avvocato reclamando di non avere nessun imputato da difendere per il processo "ADA"; è lo stesso Iamonte ad avallare la credibilità del collaboratore Giuseppe Ambrogio, nel momento in cui critica i personaggi più autorevoli che avrebbero condiviso notizie riservate dell'associazione con Ambrogio, soggetti quali il fratello Remingo, Antonino Tripodi "barrista" e lo zio del collaboratore, Lorenzo Marino.

Per quanto attiene la figura di Chilà, lo stesso viene indicato da Ambrogio come affiliato alla cosca Iamonte, appartenente alla "società minore" della "locale" di Melito Porto Salvo.

L'esecuzione dell'operazione "Sipario", maturata a termine del lavoro investigativo teso a riscontrare le dichiarazioni rese da Giuseppe Ambrogio, si presenta come un evento già annunciato, atteso che gli affiliati sono risultati essere già al corrente del rapporto di collaborazione instaurato da Ambrogio con la magistratura.

Le conversazioni telefoniche nonché quelle ambientali intercettate a bordo dell'autovettura di Chilà, nelle ore immediatamente successive all'esecuzione degli arresti, sono indicative dell'appartenenza di quest'ultimo all'organizzazione criminale facente capo alla famiglia Iamonte: Chilà appare in palese stato di agitazione ed esterna il disappunto nei confronti di Demetrio Iachino, colpevole di non averlo notiziato subito dell'accaduto.

Dalle intercettazioni emerge, inoltre, come tra le priorità cui Chilà deve subito far fronte vi sia la gestione del circolo "La Fontana" - che Chilà condivideva con Giuseppe Romeo Iaria - e dietro al quale, alla luce di quanto rivelato da altri indagati, si celerebbero gli interessi economici degli appartenenti alla medesima cosca.

In relazione alla condotta dei due cugini Verduci, le indagini avrebbero consentito di dimostrarne l'intraneità alla cosca Iamonte, emersa già dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche captate nell'ambito dell'operazione "ADA", di cui, successivamente, uno dei due conversanti - Ambrogio, divenuto collaboratore di giustizia - avrebbe confermato contenuto, significato e rilevanza specifica rispetto a quanto già dedotto all'epoca dagli investigatori.

Dichiarazioni quelle di Ambrogio che sono state ritenute attenibili anche dal Tribunale del Riesame che ha confermato l'impianto avanzato dalla Procura antimafia e nello specifico l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Cinzia Barillà, emessa contestualmente alla convalida del fermo.