Sparato, ma dichiarato morto per arresto cardiaco. L’incredibile storia di Vincenzo Morabito, tra omertà, incompetenza e possibili complicità

terrenomorabitodi Claudio Cordova - Una storia di prevaricazione, di isolamento, di incredibili e grossolani errori e, forse, anche di complicità. Vincenzo Morabito, 72 anni, viene trovato morto l'8 ottobre del 2018. Riverso a pancia in giù sulla strada in prossimità della sua proprietà, un terreno che coltivava con grande assiduità e passione in contrada Vigliana di Vinco, zona collinare di Reggio Calabria.

La morte di Vincenzo Morabito

Due delle tre figlie, che con lui si dedicavano alla cura del terreno, lo avevano salutato all'ora di pranzo di quello stesso giorno. Ma, a metà del pomeriggio, l'allarme lanciato da alcuni vicini che, da una posizione più elevata, scorgono l'uomo per terra. Dalle 17 circa, quella zona periferica del capoluogo diventa un via vai continuo. I parenti di Vincenzo Morabito, che arrivano in diversi momenti. Poi l'ambulanza del 118, infine i carabinieri.

Difficile capire, in questi casi, cosa sia successo. Ma i medici del 118 sembrano subito voler deliberare, senza troppi fronzoli, la propria diagnosi: decesso per arresto cardiocircolatorio. Ma ai parenti qualcosa non quadra. E anche i carabinieri notano qualcosa. Sul collo dell'uomo c'è del sangue. Viene quindi avvisato il magistrato di turno. Nel frattempo la voce si sparge, nella contrada in tanti si muovono. Anche occhi e orecchie interessate all'accaduto per motivi non adamantini iniziano a fare su e giù dal luogo dell'accaduto. Alla fine, dopo diverse ore, il corpo di Morabito viene portato via verso l'obitorio dell'ospedale di Reggio Calabria.

L'incredibile errore

E' proprio qui, il giorno successivo, che iniziano le mastodontiche e inverosimili stranezze. Nonostante i dubbi delle figlie e dei familiari di Morabito, tutti sono convinti che l'uomo sia morto a causa di un malore. In primis il medico legale Mario Matarazzo, che, all'esame del corpo conferma il decesso per arresto cardiaco. E questo nonostante appena sotto il collo, sul lato sinistro, l'uomo mostri quello che a tutti gli effetti appare un foro. E' uno dei generi di Morabito a realizzare l'effettiva esistenza di un foro, probabilmente causato da un colpo d'arma da fuoco. Sulla pelle della vittima, infatti, si nota anche una bruciatura, tipica della penetrazione del proiettile. Ma per gli accertamenti in corso, quello continua a essere definito un "taglietto". Che, nella versione di cui si vuole convincere la famiglia, Morabito si sarebbe causato cadendo sul terreno ruvido e pietroso.

In particolare "il medico legale riteneva probabile causa del decesso del Morabito una patologia dell'apparato cardio-circolatorio, mentre la ferita rilevata sulla regione cervicale oltre a essere probabilmente poco profonda e a non interessare organi vitali sarebbe stata provocata accidentalmente dalla caduta a terra del cadavere".

I familiari, le figlie Domenica, Antonella e Annamaria Brunella in particolare, non ci stanno. Nominano un legale di fiducia e, finalmente, convincono il magistrato della Procura di Reggio Calabria a disporre l'autopsia sul corpo del padre. Ma questo avviene solo una decina di giorni dopo. Il 16 ottobre, per la precisione. Per quasi nove lunghissimi giorni, inquirenti e consulenti scientifici restano convinti della morte per cause naturali. Ma la sera del 16 ottobre l'autopsia conferma l'inquietante ipotesi: quello è un foro causato da un colpo d'arma da fuoco. E, con fatica, dal corpo di Morabito viene infine estratto un proiettile che era arrivato fino alla quarta vertebra.

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Finalmente le indagini

Da quel momento, a tutti è chiaro ciò che poteva (e doveva) essere chiaro fin dall'inizio: Vincenzo Morabito è stato assassinato. E' stato sparato da qualcuno, probabilmente da una posizione sopraelevata. Quasi nove lunghissimi giorni, in cui, forse, con adeguate indagini si sarebbero potuti raccogliere elementi investigativi interessanti. Che, invece, forse, sono andati per sempre perduti. Ma, infine, le indagini partono. E nel registro degli indagati viene anche iscritto un uomo, Giuseppe Morabito, all'epoca dei fatti nemmeno 40enne. Parente alla lontana della vittima. Ma, soprattutto, proprietario di un terreno limitrofo e protagonista di numerosi dissidi e screzi nei mesi antecedenti.

Un perenne e crescente litigare per continue invasioni del terreno nella coltivazione. Un atteggiamento che, forse, era funzionale a indurre Vincenzo Morabito e le sue figlie a ritirarsi e abbandonare la propria legittima proprietà.

Stando a quanto dichiarato dalle figlie della vittima, la mattina del giorno della morte del proprio congiunto intorno alle 13 (e, quindi, circa quattro ore prima del rinvenimento del corpo) avevano notato la contestuale presenza nei pressi del luogo dell'episodio di Giuseppe Morabito, intento col suo trattore a seminare l'avena. L'inquietante sospetto delle figlie e che i due, rimasti soli, abbiano avuto l'ennesima lite, culminata poi con la drammatica morte del padre. Gli inquirenti, allora, iniziano (questa volta davvero) le indagini sull'accaduto. E si scontrano con un contesto di grande omertà in quel territorio. In cui anche alcuni dei parenti della vittima sembrano giocare con più mazzi di carte.

L'omertà e le presunte complicità

L'indagato Giuseppe Morabito avrebbe una certa influenza sul territorio di Vinco. Attorno a lui graviterebbero diversi soggetti. Qualcuno avrebbe anche proferito delle minacce a mezza bocca prima del delitto. Qualcun altro si sarebbe reso responsabile di danneggiamenti al terreno della vittima: il taglio di un tubo dell'acqua e la distruzione di una staccionata e di picchetti cementati, tra gli episodi maggiormente degni di nota.

Insomma, un contesto di prevaricazione in cui alcuni dei protagonisti vicini a Giuseppe Morabito sarebbero anche legati a contesti allargati di 'ndrangheta. Uno dei suoi più stretti frequentatori, infatti, sarebbe il nipote di un soggetto assassinato alcuni anni fa. Nel "cerchio magico" di Morabito anche un 22enne, un tempo fidanzato con la nipote di Morabito. Ma rimastogli fedele anche dopo essere stato scaricato dalla fidanzatina. Il giovane, pur essendo direttamente imparentato con la famiglia del deceduto, non avrebbe mai manifestato la propria solidarietà o le proprie condoglianze per quanto accaduto.

Ma non solo. Ciò che inquieta ancora di più è che Giuseppe Morabito, l'uomo che, a detta delle figlie della vittima potrebbe essere l'autore del delitto, è cognato di un carabiniere, con cui intrattiene un rapporto molto stretto, usufruendo anche del suo veicolo. Il militare nelle ore, nei giorni e nelle settimane successive al tragico episodio, sarebbe stato molto attivo sul territorio di Vinco. E molto presente anche nei pressi della stazione dei carabinieri del luogo. Sebbene non prestasse servizio lì, ma a Melito Porto Salvo. Oggi, tuttavia, sarebbe stato trasferito ad altra sede.

Terra bruciata

Questo è il contesto in cui le tre figlie di Vincenzo Morabito continuano a chiedere giustizia. A quasi tre anni dall'accaduto, non è dato sapere a che punto siano le indagini della Procura di Reggio Calabria. Mentre le tre donne continuano a essere trattate come appestate per aver fornito la propria attiva e intensa collaborazione agli inquirenti.

E, spesso, intimidite. Quando non minacciate. "Tragediatrice, infame, ti scannu, tempu passa chi vi mazzu a tutta a famigghia" uno degli episodi denunciati da una delle tre sorelle. O, ancora, in un altro episodio "Avi na para i iorna chi mi vardi, a prossima vota chi ti viu chi mi vardi ti sciuppu l'occhi". E poi, ancora, pedinamenti con l'auto e appostamenti lungo le strade obbligate per il rientro a casa.

Addirittura, la minaccia di infangare la memoria della vittima, mettendo in giro la diceria che questi avesse tentato di mettere in atto una violenza sessuale ai danni di una donna assai vicina proprio a quel "cerchio magico" relazionale. E, quindi, disposta a confermare. "Tutto deve finire" il messaggio lanciato alle figlie che, invece, non si danno pace e continuano a lottare contro tutto e tutti.

"Infami" Domenica, Antonella e Annamaria Brunella. Per aver contravvenuto a una endemica, diffusa e deprecabile sottocultura dell'omertà in una piccola frazione di Reggio Calabria. Dove ormai, tanto andare all'ufficio postale, quanto recarsi in una bottega o in un bar, attira addosso occhi e malelingue. Atteggiamenti continui che, nella migliore delle declinazioni, si concretizzano un inesorabile isolamento sociale, anche da parte degli stessi familiari.

Solo perché si continua a chiedere giustizia per il proprio genitore.