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I Segreti di Twin Bronzes (ovvero la catarsi che non arriva mai)

di Mariagrazia Costantino* – David Lynch è morto due settimane fa, scatenando in tutto il mondo un’ondata di affetto e commozione che continua a durare. Sì perché l’adorabile “boomer” non era solo pieno di “quirks”, di stranezze (beveva litri di caffè, mangiava ogni giorno le stesse cose e si riparava i pantaloni sdruciti con la carta e la colla vinilica), ma anche di umanità e compassione. Almeno stando a quello che dice chi l’ha conosciuto o ha interagito con lui anche solo brevemente.

Da spettatrice e ammiratrice dei suoi film, ho visto di lui quello che la sua arte fa vedere; e tra le cose che mi colpiscono della sua produzione, caratterizzata da alti altissimi e bassi un po’ sbilenchi, è la costante presenza di personaggi femminili minacciati da un grave pericolo o già persi. Infatti, a differenza dei tanti registi geniali e irrimediabilmente misogini che maltrattavano sia i personaggi femminili dei loro film sia le attrici che li interpretavano, Lynch non solo rispettava le donne (ed era da loro rispettato), ma le considerava catalizzatori di energia, forti e fragili come il cristallo più puro. Se la corruzione le sfiorava era quella della violenza e del potere – il potere del male e il male del potere – che tutto contamina e distrugge. Le donne di Lynch però, nonostante l’apparenza, non sono vittime passive: sono eroine che combattono sempre e a volte soccombono, proprio come nelle tragedie greche. E quella che David Lynch metteva immancabilmente in scena, persino in Una Storia Semplice (la sua opera più lineare), è di fatto la tragedia dell’esistenza che costringe a convivere con il male, che ci risparmia solo per puro caso o fortuna. Mettere in scena questa convivenza ha un effetto catartico: lo sapeva Euripide e lo sapeva Lynch, che attraverso un sapiente uso delle musiche di Angelo Badalamenti, suggeriva momenti di assoluta disperazione e improvvise, fugaci aperture alla speranza.

David Lynch è stato talmente influente da avere un aggettivo corrispondente – “lynchiano”, a indicare contesti e situazioni caratterizzate, proprio come i suoi film, da una combinazione di assurdo e grottesco con tocchi di comicità ma anche jumpscare e scene horror che sono rimaste impresse nella memoria di tutti. Perturbante, inquietante ma sempre umano (dunque all’occasione anche ridicolo).

Il motivo per cui così tante persone sono affezionate al regista di Missoula nel Montana – quello delle “mandrie e cowboy” della vecchia réclame – e gli volevano, anzi gli vogliono bene come se ne vuole a quello zio eccentrico che ti capisce perfettamente, è che lui non raccontava frottole e non consolava: mostrava il mondo com’è o come potrebbe essere, con i suoi aspetti spaventosi e sublimi, la turpitudine e la salvezza, la minaccia e la redenzione. Senza misticismi di maniera alla Malick, ma con riferimenti colti al trascendentalismo e frequenti omaggi all’arte surrealista, alla pop art e al camp.

L’arte racconta la vera essenza del mondo e dei suoi pericoli con l’astrazione e l’allegoria, ma Lynch si permetteva il lusso di essere letterale (il male è brutto e fa paura).

Uno degli incipit più brillanti nella storia del cinema è proprio la scena di apertura di Velluto Blu (1986), le cui inquadrature restituiscono l’idillio della vita americana dei suburb, i quartieri residenziali: staccionate bianche e fiori così perfetti da sembrare finti, come lo sembrano i bambini che tornano da scuola, le mamme che guardano la TV e i papà che innaffiano il prato. Poi la musica cambia, diventa minacciosa. L’idillio si spezza: sullo schermo compare una pistola; il papà ha un attacco di cuore; la macchina da presa “stringe” progressivamente sull’erba e la terra sottostante. L’inquadratura sempre più soffocante si sofferma su qualcosa di spaventoso: insetti brulicanti sopra quello che non vediamo, ma che è sicuramente in decomposizione. In pochi minuti un riassunto delle leggi della Terra e dell’anomalia che è la presenza umana su di essa.

Il regista ha indagato con insistenza gli umani (spesso ben poco umani) e il loro habitat, e in modo non del tutto dissimile a Stephen King ha capito che tra le persone e i luoghi si instaura un rapporto osmotico, uno scambio reciproco di energia e volontà. Compresa la volontà di fare del male.

L’Italia è forse il paese più lynchiano del mondo, perché dietro la solarità dei suoi giardini e il blu dei suoi mari si annidano strati e strati di male nascosto. Anzi sepolto.

Ma cos’è esattamente questo male? È il trauma generazionale che s’imprime nelle menti e nei luoghi stessi. Sono gli occhi che hanno visto bambini dilaniati dalle mine dei tedeschi e le rocce macchiate del loro sangue; le campagne di Bascapè e i contadini che per primi hanno trovato i resti dell’aereo su cui viaggiava Enrico Mattei con il suo seguito, compreso il giornalista americano William McHale; sono il paradiso in terra di Erto e Longarone, spazzati via dalla gigantesca ondata di acqua che nel 1963 scavalcò la diga del Vajont; gli anfratti in cui venivano tenuti i rapiti durante la stagione “d’oro” dei sequestri della ‘Ndrangheta, silenti testimoni di sevizie inflitte per insaziabile sete di ricchezza; sono le acque cristalline tra Ustica e Ponza nelle quali si è inabissato il DC-9 con tutti i suoi passeggeri, tra cui i fratellini Diodato con la mamma Giovanna, che andavano a Palermo da papà Pasquale per le vacanze, all’inizio dell’estate del 1980.

Sono gli appezzamenti di terra che Maria Chindamo curava con amore, e i maiali cui i suoi resti sono stati dati in pasto.

È vita calpestata con noncuranza e disprezzo, come si calpesta un fiore. Il male che abbiamo voluto minimizzare e ancora più spesso ignorare o nascondere, facendolo così diventare eterno e garantendone il passaggio di padre in figlio e di madre in figlia. Come un baule pesante che nessuno vuole ma che comunque bisogna trascinarsi dietro.

Alcuni scorci dell’Aspromonte ricordano i paesaggi di Twin Peaks, ma anche la tetra minaccia della radura dove sorge l’Overlook Hotel, teatro a sua volta di crimini convenientemente rimossi.

Io mi guardo in giro e vedo strati sovrapposti di male calcificato: male inflitto e male subito. Il trauma come stile di vita, che rende gli sguardi duri e impenetrabili. La diffidenza inscalfibile.

In ogni piccola città ci sono persone e personaggi à la Twin Peaks: c’è la temuta donna col ceppo (novella Tiresia); l’agente Cooper, osservatore esterno il cui sguardo riesce a cogliere quello che chi è assuefatto alle modalità quotidiane della provincia non vede (più); ci sono gli ingenui, gli innocenti, gli stupidi, i bulli, i corrotti e gli assassini. Poi c’è Laura. Che è la verità. Quella che non abbiamo il coraggio di guardare, per paura di riconoscere noi stessi, dietro quel telo di plastica. O lo sguardo di chi l’ha uccisa.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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