Riace: dal pieno al vuoto, dal vuoto al sogno di un nuovo pieno

riace nuovaFacciamo seguire alla lettera pubblicata su questo giornale da Saverio Pazzano e Alessio Magro una riflessione di Vito Teti che costituisce l'elaborazione della relazione "il sentimento dei luoghi. Il sentimento degli altri" presentata il 28 novembre ad Acri in occasione del premio della fondazione Padula assegnato a Mimmo Lucano.

 

di Vito Teti - La prima volta che ho visto Riace superiore è stato nel 1979. C'ero andato per realizzare un documentario sulla festa dei SS. Cosma e Damiano, in uno dei luoghi di culto e di pellegrinaggio più importanti della Calabria. Alla fine degli anni Settanta il paese di sopra era meta dei pellegrini delle Serre e dello Ionio per la grande festa di fine settembre dei Santi Medici. Ricordo le baracche all'aperto, le locande improvvisate, le processioni, le veglie in chiesa con le donne che "dormono" e pregano, stese per terra, e le ragazze con gli ex voto. Le salsicce fresche nelle trattorie, gli interminabili fuochi d'artificio e il ballo degli zingari davanti alla statua dei santi. Mastro Micu, anima dei luoghi, durante il tragitto processionale, quasi danzando sulle tavole dove erano sistemati i Santi, accoglieva nelle sue mani ex voto e soldi che poneva in una grande cassa. Svelto e attento, afferrava i bambini che i fedeli gli porgevano, li avvicinava alle statue dei Santi e li restituiva, felice, ai genitori che attendevano con le mani protese. Mastro Micu, raccontando la vita e i miracoli dei Santi, mi accompagnava lungo la marina, a pochi chilometri di distanza, dove sorge un doppio ormai più popoloso del paese uno, per mostrarmi il luogo in cui erano sbarcati i Santi Medici, proprio nello specchio di mare dove nel 1972 erano stati rinvenuti i Bronzi. Come altri Santi e Madonne, anche loro arrivavano da Oriente o dal Nord Africa.

Per la festa tornavano gli emigrati sparsi in Italia e nel mondo. Tornavano i giovani che studiavano fuori. Ho registravo voci, raccolto testimonianze, scattato foto (anche in anni successivi), che hanno costituito i materiali del documentario. Quell'universo mobile ed errante (che vedevo anche a Polsi, nelle Serre, sul Pollino in altri luoghi di culto in montagna o nell'interno) narrava di arrivi e di partenze, di spostamenti, scambi, spinta ad "evadere" e ad incontrare altre persone.
Mimmo Lucano, in varie occasioni, ha raccontato che l'idea di accogliere i profughi gli era venuta anche pensando alle teorie di pellegrini e agli zingari che ballavano ore e ore per devozione e per divertimento. Pensando all'arrivo dei Santi e dei Bronzi.
Negli anni, con una nuova ripresa dell'emigrazione e con la progressiva discesa lungo le coste, anche Riace, come tanti altri paesi dell'interno, comincia a svuotarsi e la popolazione si riduce a meno di cinquecento abitanti, mentre il suo doppio, sorto in maniera disordinata e inarrestabile lungo le coste, lentamente raggiunge circa duemila abitanti. I tanti doppi nati per spostamento dei paesi interni lungo le marine, un tempo deserte e malariche, devastate per secoli dai corsari turcheschi sono dei «non luoghi» (o non ancora luoghi), mentre i paesi da cui erano nati diventavano non più luoghi, sempre più vuoti e in abbandono, meta di ritorno per seppellire i defunti, per le feste o per qualche visitatore forestiero nei mesi estivi.
A inizio anni Novanta, in questa vicenda si iscrive il caso dello slogan «Badolato paese in vendita» lanciato da Mimmo Lanciano, uno studioso locale, che attira l'attenzione dei media, suscitando l'interesse di alcuni artisti, costruttori, operatori turistici e di qualche agente immobiliare. Qualche anno dopo, il 26 dicembre 1997, lungo la costa tra Badolato e S. Caterina, approda una carretta carica di profughi, 835 tra curdi provenienti dalla Turchia, dall'Iran e dall'Iraq, e immigrati di altre etnie. Quello dell'«Ararat» è il sesto sbarco a partire da quello avvenuto a maggio, nel territorio di Guardavalle. Badolato conosce altra attenzione, molte iniziative, diversi tentativi di accoglienza, che, però, nel tempo e per varie ragioni si esauriscono.
Eletto sindaco nel 2004, Mimmo Lucano pensa a Riace, dove aveva già avviato progetti di recupero delle case lasciate vuote dagli emigrati, come luogo di immigrati, rifugiati politici, ma anche di artisti e turisti che, nella sua visione, potevano fare rivivere, rinnovandola, una tradizione di mobilità e di ospitalità. Si realizzava, come lui racconta, una sorta di sogno.
«Avevo immaginato che un giorno sarebbe arrivato qualcuno, sarebbe successo qualcosa, sarebbero giunte persone per portare qualcosa di nuovo, per riempire il paese, per cancellare il silenzio e la solitudine del mio paese».
I progetti, finanziati dalla Comunità Europea, sono stati sostenuti dalla Giunta Regionale della Calabria, che ha fatto in Italia la prima legge regionale sull'accoglienza. Mimmo, in un periodo in cui la xenofobia e il razzismo sembrano alimentati dalle scelte del governo, trova assurdo e pericoloso il reato di clandestinità. «A queste persone viene contestato il reato da esistere. Eppure sono fuggiti da guerre e da condizioni di miseria che loro non hanno certo voluto e noi non possiamo che accoglierli».
Riace diventa, così, lentamente, un piccolo borgo colorato e multietnico. Molti stranieri trovano alloggio in un centro storico recuperato, nelle case abbandonate dagli emigrati. Nel periodo 2008-2010 (quando Wim Wenders gira "Il Volo" e io intensifico le mie visite a Riace) vedo immigrati e giovani del paese lavorare in piccoli laboratori artigianali e botteghe nati nei vicoli. Il cantiere dell'accoglienza era aperto. La terra delle partenze stava diventando terra degli arrivi. Una novità da cogliere, da assumere, in maniera positiva in un contesto di degrado e di spopolamento.
Nel frattempo, crollavano altri paesi, altre frane provocano abbandoni, dispersioni, lutti e lacerazioni: come a Crotone, Soverato, Cavallerizzo, Bivona. L'abbandono, che alle volte è un modo per fuggire da territori oppressi dalla criminalità, crea allo stesso tempo «zone franche» per la criminalità. I fondali marini, le montagne, le colline, i boschi diventano le pattumiere d'Europa. Una storia di avvelenamenti, di scorie radioattive e di mafie resta ancora tutta da scrivere. È come se le popolazioni, con indifferenza o complicità, avessero assistito silenziose alla distruzione delle proprie risorse e ricchezze. Il territorio è devastato da arpie fameliche, abili e cinici intercettatori dei benefici dei disastri e delle emergenze. L'abbandono e la ricostruzione degli abitati a seguito di catastrofi, terremoti, alluvioni, invasioni è un dato di lunga durata della storia calabrese e, negli ultimi decenni, è un problema di vasta portata, più che in altre aree montane d'Italia e di Europa.
Mimmo Lucano non ha nascosto difficoltà, ostacoli, contrasti incontrati anche a livello locale; tuttavia Riace sembra voler scrivere una «storia» che non è più quella di un paese in abbandono, ma di un luogo dove molti vuoti sono stati riempiti dagli arrivi. La rivitalizzazione dei luoghi spopolati per ragioni diverse (catastrofi, emigrazione, crisi demografica) appare possibile in presenza di un modello praticabile di accoglienza.
L'eccezionalità di questo avvenimento viene colta da Wenders, che nel 2009 gira «Il Volo» tra Badolato e Riace. In un intervento al Municipio di Berlino, l'11 novembre 2009, durante il decimo summit dei Premi Nobel per la Pace afferma: «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l'accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell'immigrazione». E ancora: «La vera utopia non è la caduta del muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria. Riace in testa».

Identità chiusa e identità aperta. Mimmo Lucano diventa nel tempo una figura simbolo dei nostri tempi, proprio perché tenta di dare, se non una risposta, almeno delle indicazioni per risolvere i due più grandi, evidentemente complementari, problemi dell'Italia e dell'Europa: lo spopolamento e l'immigrazione. Lo fa non a parole, ma compiendo, spesso con difficoltà e in solitudine, scelte concrete, che sconvolgono le forme di rappresentazione e autorappresentazione, le narrazioni interne ed esterne della Calabria.
Grazie a Riace, all'esterno, nei media, a livello nazionale ed europeo, la Calabria si libera delle immagini negative che le gravano addosso da decenni, se non da secoli. La terra maledetta e della criminalità diventa la terra promessa e dell'accoglienza. Così, ciò che non avviene con i Bronzi e con i beni archeologici, con le bellezze e con il paesaggio, quello che non riesce a tanti che, anche animati da buona volontà e dalle migliori intenzioni, si muovono per promuovere una Calabria bella e positiva, riesce a Mimmo Lucano. La Calabria, come è noto, soffre sia per una sovraesposizione che per sottoesposizione di immagini, che la fanno dimenticare e riscoprire periodicamente. Il brigantaggio e la rivolta antifrancese; i moti del 1848 e risorgimentali; episodi del periodo post-unitario; la grande emigrazione; il banditismo di Giuseppe Musolino; i terremoti del 1905 e del 1908; la rivolta di Caulonia; le lotte contadine per la terra; la rivolta di Reggio Calabria; la lunga stagione dell'affermazione della 'ndrangheta come holding del crimine. Si tratta di vicende profondamente diverse – sarebbe errato adoperare qui la categoria del ribellismo del Sud o mitizzare queste forme di antagonismo – che l'hanno portata di volta in volta all'attenzione nazionale ed europea. La capacità di costruire un nesso positivo tra spopolamento, immigrazione e accoglienza rappresentata dalla figura di Lucano e dal modello Riace riportano alla ribalta una terra spesso marginalizzata, a torto, che questa volta diventa metafora di qualcosa di estremamente positivo, di veramente antagonista e che, anche per questo, deve essere contrastato. La novità risiede anche in questa modalità che ribalta i modi angusti di intendere l'identità e di autorappresentarsi di tante élites e di tanti politici. Ricordo una sera a Riace, 16 dicembre 2009, con Mimmo a Palazzo Pinnarò, sede dell'Associazione Città Futura "G. Puglisi": grande animazione, un via vai ininterrotto, accenti diversi. Una docente che insegna italiano ai bambini immigrati e si occupa dell'organizzazione, mi dice: «Una volta questo antico e ricco palazzo era chiuso a tutti. Nessuno poteva entrare. Adesso è aperto a tutti».
Mimmo non fa riflessioni sull'identità, apre le porte e rivela una concezione dell'identità aperta, mobile, non monocromatica e fossilizzata. Ci aiuta a prendere atto che, come ho scritto diverse volte, è necessario stemperare l'ossessione identitaria fatta di interminabili domande, di mille perché, di mille condanne e di infinite autoassoluzioni, lacerazioni e forme di afflizione.

--banner--

La Calabria tra sottoterra e cielo – Le luci e le ombre. Non esiste una Calabria, ma tante Calabrie come, non a caso, si diceva in passato. La Calabria ossimoro, terra di contraddizioni e di ambivalenze, delle identità e delle disidentità, che soltanto uno sguardo superficiale presenta in maniera granitica. Terra bruciata dal sole e bagnata dalle piogge, di inverni rigidi e stagioni calde, degli ottocento chilometri di costa e del novanta per cento del territorio montano e collinare, del radicamento e delle fughe, degli abbandoni e delle continue pazienti riparazioni, della limitatezza e dell'infinito, dell'adesso vengo e del non arrivo mai, della pietas profonda e delle violenze più cupe, degli amori e degli odî interminabili o effimeri, del planctus religioso e utopico, che interseca anche la denuncia sociale, e delle bestemmie più terribili.
La Calabria delle mille attese e delle mille delusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti. Ogni cosa, dalle nostre parti, può diventare il suo contrario. Ci sono il cielo, le virtù, la pazienza e l'ospitalità, la pietà, ma c'è anche il sottoterra, i rancori, i vizi, gli odi, i litigi. C'è un cielo luminoso, ma c'è anche un'infernale spietatezza. Ci sono la luce e il sole, ma ci sono le ombre e le oscurità. Ci sono aspetti luttuosi, melanconici, ombrosi nella mentalità e nell'antropologia delle popolazioni, collegati a una storia complessa e difficoltosa, a guerre, invasioni, catastrofi, che non vanno esaltati ed esasperati, ma riconosciuti, compresi, assunti.
Con una bella immagine di padre Pino Stancari, la Calabria è tra sottoterra e cielo: un sottoterra che allude a viscere sotterranee, a profondità che non appaiono superficialmente e non sono facilmente discernibili. Il sottoterra ha una sua ambiguità: o voragine possessiva e rapinatrice oppure profondità sotterranea che è in grado di esprimere una capacità di accoglienza sorprendente. Anche il cielo ha una sua ambiguità: il cielo che può essere inteso come fuga, scivolamento nel mito o invece come apertura, grande prospettiva, capacità di slancio, prontezza nel volgersi all'altrove. Le ambiguità che legano sottoterra e cielo ci spingono ad andare oltre una logica apparentemente paradossale. C'è una corrispondenza speculare tra l'abisso che si spalanca sotto e dentro di noi e il cielo luminoso e largo. C'è una parentela, che ci suggerisce un percorso da compiere fuori e dentro.
Le ombre non si negano, non si occultano, vanno riconosciute, assorbite e così anche la luce e il cielo non si raggiungono con i proclami. Bisogna accendere faville, come diceva don Mottola. Possiamo essere orgogliosi delle nostre virtù, se sappiamo riconoscere e assumerci anche i vizi; possiamo elogiare e commuoverci per le bellezze, se sappiamo indignarci per le distruzioni che abbiamo compiute; possiamo gloriarci della nostra accoglienza, se riconosciamo i nostri rifiuti. Dobbiamo riconoscere i lati ombrosi della nostra storia collettiva ed individuale. Dobbiamo scrutarci senza indulgenza. Senza autolesionismi, ma senza semplici autoassoluzioni. Vedere il sottoterra e riuscire a staccarsene non è facile: le responsabilità non sono sempre altrove, sono anche qui, sono anche nostre. L'autoascolto e l'autosservazione non debbono tradursi in sterile rimpianto, in inutile compiacimento, ma in una capacità di fare i conti con il proprio passato per affermare una diversa presenza. Nel Sud, che ha conosciuto storie di contrasti e di conflitti, dove le identità sono spesso frammentate e lacerate, dove sono mancate la mediazione e la conciliazione, dove davvero gli opposti si toccano, e sentimenti e comportamenti sono, nel bene e nel male, eccessivi ed esasperati, bisogna avere la capacità di scrutare le zone in chiaroscuro, di rintracciare l'indistinzione. Qualcuno si assume le ombre di questa terra e accetta di portare la croce, il peso del restare, con dolore, dentro questo «noi». Mimmo Lucano fa i conti con le negatività, non le disconosce, ma opera perché vengano superate, anche ribaltando le immagini negative.

La persuasione e la retorica. Non servono – a ripensare la vicenda di Lucano – narrazioni telecomandate, indotte, auspicate. L'identità non è, ma si fa, la si costruisce. L'identità non basta proclamarla a convenienza.
Riprendendo il pensiero di Michelstaedter, «persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di sé stessi; «rettorica» è l'apparato di parole, gesti, istituzioni con cui viene occultata l'impossibilità di giungere alla «persuasione». Non di meno, la persuasione è una via da perseguire per contrastare quanto più possibile la retorica, ovvero le ombre, le favole, i pregiudizi che occultano la «verità». Attenzione a non badare più all'immagine che alla sostanza. L'ospitalità e l'accoglienza appartengono, certo, alla storia e alla cultura di noi calabresi, fanno parte delle nostre forme di rappresentazione, ma tali valori non possono essere assunti, assolutizzati, come una sorta di carattere naturale. In questo senso, la «persuasione» viene troppe volte sommersa dalla retorica: nella terra dei grandi contrasti, una sottile linea d'ombra separa la convinzione dall'enfasi. L'ospitalità non può assumere i connotati della spettacolarizzazione. Come osservava Vincenzo Squillacioti, direttore de «La Radice»: «Ferma restando l'ospitalità dei badolatesi, certe iniziative in loro favore si sono tradotte in un grande bluff. L'ospitalità è stata per alcuni anche interessata». Con persuasione e convinzione, l'accoglienza per Mimmo è stata un fatto naturale, non un semplice atto di umana solidarietà, ma un «piacere», la realizzazione di un sogno e anche una speranza. Parole come accoglienza, ospitalità, filoxenia, «trasite», «favorite», spesso mitizzate ed evocate senza alcun riferimento alla realtà, sono state portate alla loro dignità, rese concrete, attualizzate.

L'identità dell'essere e l'identità del fare. Ai tempi di Croce l'espressione «un paradiso abitato da diavoli» non aveva perso ancora la sua fortuna anche se le antiche immagini erano ormai sbiadite. Si può tollerare o biasimare lo stereotipo, scrive Croce, che avverte di non liquidarlo ma di adoperarlo come pungolo perché possa «mantener viva in noi la coscienza di quello che è il dovere nostro». Croce assume lo stereotipo chiedendosi quali fossero le ragioni storiche e pratiche della sua diffusione, concludendo che «ci importa poco ricercare fino a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre meno». La decostruzione dello stereotipo, secondo Croce, è possibile soltanto grazie a comportamenti e ad azioni che, di fatto, ne mostrano l'infondatezza. Predrag Matvejevic ha ricordato come il Mediterraneo, la patria dei miti, abbia sofferto di mitologie che esso stesso ha generato o che altri hanno alimentato. Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, senza riuscire a diventare mai un progetto. «La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l'immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Un'identità dell'essere, amplificandosi, eclissa o respinge un'identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi». La rivendicazione d'identità ha un carattere estremamente vago, dissimula più di quanto non chiarisca. In realtà il pensiero dell'identità poggia, come ricorda sempre Laplantine, su una solida tradizione che in Europa va da Parmenide a Heidegger e ha come capostipite Platone. Per il pensiero filosofico tradizionale, a è sempre uguale ad a ed a non è mai non a; ogni cosa diversa da a è b o c, e così via. Il verbo «essere» è la pietra angolare della logica dell'identità. Il pensiero dell'«essere» è un pensiero dell'identificazione. Occorre elaborare un concetto di identità aperto, mobile, in cui l'interrogativo prevale sulla risposta, l'essere sul fare. A me sembra che Mimmo Lucano, come altre figure interne alla storia e alle vicende del mondo popolare, in cui essere e fare non potevano essere distinti, senza proclami, senza domande sterili, senza lacrime forzate, senza lamentele, sceglie, pratica, l'identità del fare, dell'operare. E così scardina una recente posizione angusta secondo cui la Calabria diventa diversa, migliore, perché la si racconta in maniera diversa, magari tutta sole, mare, bellezze, paradiso. La Calabria diventa diversa se la si guarda, la si considera, la si tratta in maniera diversa.

Cristo di legno e Cristi di carne. Un altro grande calabrese, Vincenzo Padula, scriveva che la poesia è sorella della miseria e occorre fare in modo che l'una rimanga e l'altra scompaia. Diceva ancora, lui prete, rivolto alla gente, di non adorare il Cristo di legno, ma il Cristo di carne, il bracciante sfruttato e affamato. Non so se Mimmo Lucano abbia letto Padula, ma certo sembra avere tentato di mettere in atto quanto Padula diceva. Mimmo Lucano fornisce un esempio di concreta umanità e presenta quella Calabria che sogniamo, quella della poesia e non della miseria.
Quando impaziente, la sera, mentre siamo con Wenders, lascia tutto per andare ad accogliere gli immigrati che arrivano; quando chiede scusa agli africani di Rosarno e propone loro di andare a Riace; quando ospita i tre feriti di quella città; quando, dinnanzi ai rifiuti di accoglienza, si fa avanti, si offre per prendere sempre più gente: forse avrà fatto qualche calcolo sbagliato, forse avrà disubbidito a qualche norma, forse avrà fatto male qualche rendiconto, ma certo ha scelto la via della poesia della vita e ha santificato i nuovi Cristo di carne, gli immigrati, gli stranieri, gli esuli.

Utopia, retrotopia, utopie minimaliste. Le note vicende recenti di Riace e di Lucano (le sue difficoltà, le inchieste giudiziarie, il suo arresto, le motivazioni del Riesame) sono oggetto di riflessioni, prese di posizione politiche, scontro tra diversi modi di intendere l'accoglienza o, per meglio dire, tra chi vuole l'accoglienza e chi pensa di alzare muri. Difficile non pensare che sottotraccia ai controlli e alle indagini (di per sé doverosi nei confronti di qualunque amministrazione) non esista una visione che ritiene di dover sconfiggere un determinato «modello» di accoglienza e di giustizia, proprio nelle sue possibili valenze politiche.
Il collegamento che dev'essere risultato ovvio a Wenders nell'immagine usata di fronte alla platea di Berlino ci ricorda anche che il tramonto delle grandi utopie Novecentesche presenta il rischio costante di consegnarci a quella che, con termine coniato da Bauman, è stata definita «retrotopia». La nostalgia positiva, utopistica, rivolta al futuro è stata rimpiazzata dal suo opposto, da un idealismo e una propaganda che si richiamano a un buon tempo antico, pacificato, in realtà mai esistito o alla chiusura difensiva all'interno di piccole patrie incapaci di accogliere il cambiamento, l'alterità. Una tendenza che, oltre a portare con sé incalcolabili rischi regressivi, può suonare anche come un'implicita autoassoluzione e una legittimazione dei gruppi dirigenti. Già Corrado Alvaro criticava le élites locali che trovavano rifugio nelle glorie e nelle magnificenze della Magna Grecia, mentre contadini e braccianti fuggivano all'estero. La critica di Alvaro, che amava la cultura classica e ne traeva spunto anche per la sua opera narrativa, suonava come un biasimo alla retorica locale e nazionale delle élites del suo tempo, anticipazione della «retrotopia» contemporanea. Tuttavia, mentre ai tempi di Alvaro questo passato, per quanto mitizzato, continuava ad esercitare un'influenza sul presente, ai nostri giorni ci si rifugia invece in un mondo leggendario, senza tempo né luoghi storici, il cui unico esito è la costruzione di un'identità angusta e monocromatica. Quasi in un rispecchiamento dell'invenzione della Padania, certo anche per reazione alle xenofobie razziste e leghiste, assistiamo all'invenzione di una «Borbonia felix», in chiave antiunitaria, senza alcun fondamento storico e a puri fini ideologici. Rispetto alla nostalgia regressiva, retrotopica delineata da Bauman, in Alvaro l'evocazione del passato e il riferimento alla civiltà dei contadini e dei pastori hanno un carattere sostanzialmente diversi, capaci di fare i conti con la memoria e con l'utopia. Proprio la memoria del passato e la fuga da un mondo massificato sono gli elementi che – nella visione distopica di L'uomo è forte – hanno la capacità di contrastare la dispersione, il controllo e la manipolazione operati da un Potere di sapore kafkiano. L'antimodernità di Alvaro è utopica, aperta al futuro e al mondo, non ristretta in angusti confini. Non a caso egli apprezza, cita e studia i grandi calabresi (Tommaso Campanella, su cui scrive un libro, ma anche, tra gli altri, Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Telesio) che avevano dato un contributo essenziale alla civiltà nazionale ed europea. Alvaro rilegge inoltre la fuga e le utopie dei briganti e degli emigranti nei loro aspetti oppositivi, di critica del presente, di ricerca di un mondo nuovo.
In un saggio del 2016, Occidente senza utopie, anche Massimo Cacciari si confronta col tema del tramonto delle grandi utopie, delle speranze e delle illusioni della stagione di lotte sociali e politiche di cui fu protagonista la sua (e anche mia) generazione, ripercorrendo in questa chiave una storia della modernità che parte dal Rinascimento di Campanella e di Tommaso Moro. Nelle sue riflessioni, Cacciari non vede più reali capacità di trasformazione dello status quo di soggetti sociali le cui differenze sono annullate in una «moltitudine sradicata». Portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze, terminato il XX secolo, la fine del soggetto di classe (ovvero della lotta di classe) sembra coincidere per Cacciari con la fine della possibilità filosofica dell'Utopia, della proiezione di un mondo nuovo e della tensione verso di esso.
Eppure, verrebbe da osservare che le diseguaglianze contro cui quella generazione si è battuta sono oggi più profonde di un tempo, povertà e ricchezza sempre più divergenti nel mondo, lo sfruttamento dei lavoratori, occidentali e immigrati, più intenso e geograficamente più esteso; infine, assistiamo al ritorno in pompa magna di chiusure, razzismi, sessismo, cacce alle streghe e intolleranza. Se di fronte alle retrotopie imperanti non è possibile, per una serie di ragioni, un ritorno tout court delle grandi utopie del passato, la capacità di far rinascere, nella pratica, piccole utopie quotidiane di cambiamento, che anche il regista tedesco ha colto in quanto ha visto di persona a Riace, trova oggi collegamenti con la resistenza di persone, di giovani, dei Mimmo Lucano che, tra mille costanti difficoltà e con la consapevolezza della fragilità, del successo e dei tempi non scontati della propria opera, si impegnano nel recupero dei luoghi, nella tutela dei diritti e del territorio, suggeriscono, anticipano e – almeno a livello di percezione dei problemi e di possibili soluzioni – sono in grado di provocare grandi "mutamenti" in alternativa alle logiche e ai pensieri dominanti.

Giustizia e leggi. A più riprese, Mimmo Lucano – a chi gli faceva notare presunte irregolarità nella pratiche di accoglienza e trasgressioni delle leggi sull'immigrazione – ha rivendicato il diritto e la necessità di trasgredire leggi ingiuste, rifacendosi alle esperienze di disubbidienza che gli provengono dalla sua formazione. Il numero 7/ 2018 di "Micromega" (in edicola lo scorso 22 novembre) è dedicato appunto al tema "la legge e la rivolta": diversi studiosi, a partire dal caso di Lucano (da lui stesso raccontato) e di Riace, riflettono da varie angolazioni sul rapporto tra giustizia, legalità, leggi. Mi viene in mente come nell'alta tradizione culturale calabrese, un'idea della Giustizia in quanto distinta dalle leggi sia stata espressa con forza. Penso, ad esempio, a Tommaso Campanella, che, in carcere, si finge pazzo per raggirare interrogatori e per non essere condannato, penso ad Antonello di Gente in Aspromonte di Alvaro che si ribella ai padroni e ai signori del paese e realizza, in concreto, un mondo rovesciato, un Carnevale e una festa durante le quali i poveri possono mangiare con le carni degli animali rubati ai ricchi. Antonello si sente nel giusto e, non a caso, quando i carabinieri gli vanno incontro per arrestarlo, è felice perché finalmente potrà raccontare alla Giustizia le sue ragioni. Per citare un passo di Itinerario italiano di Alvaro: «I maggiori uomini della Calabria portarono sempre in sé questo avvertimento: un Abate Gioacchino, un Francesco da Paola, un Campanella, dominano questa regione come segni di quel genio tutto proprio della regione di abbracciare le grandi idee di abnegazione, di impersonare la missione dell'uomo in viaggio verso la giustizia, l'ordine, e l'universo considerato come una sola famiglia». Le ragioni della Giustizia sono diverse da quelle delle leggi. Non sostengo, certo, che Lucano si colleghi esplicitamente a questa tradizione, certo è nei luoghi in cui vive che è stata sognata e disegnata La città del Sole di Campanella, che Alvaro ha ambientato la vicenda di Antonello, che i contadini e i braccianti, all'indomani della caduta del fascismo, hanno realizzato la Repubblica rossa di Caulonia. Ripeto: non bisogna confondere storie, eventi, narrazioni diverse: certo non si può non cogliere il dato come anche nell'universo popolare tradizionale l'idea della Giustizia non coincidesse con le leggi dei ceti dominanti.
Il problema è uscire da un possibile stato di isolamento e fare diventare patrimonio collettivo e politico una disubbidienza critica alle leggi vigenti. Se questo non avverrà, il cambiamento rischia, ancora una volta, di trasformarsi in sconfitta. In assenza della costruzione di un progetto collettivo, di un'elaborazione approfondita e condivisa, il pericolo è la caduta nell'autoesaltazione, in un ribellismo autoreferente irrealista e privo di prospettive.
Per chi professa posizioni xenofobe e antiimmigrati, la chiusura, sospensione o interruzione – e io penso non sia tale – del modello Riace, è arrivata troppo tardi. Lo hanno compreso, vorrei dire finalmente, amministratori, sindaci, intellettuali, artisti, scrittori. Perché ormai quelle pratiche di ripopolamento, di riguardo dei luoghi, di accoglienza, di affrontare l'immigrazione sono diventate parte del sogno, delle visioni, del vissuto di tanta gente. Sono diventate contagiose. Mimmo Lucano – a cui sono vengono dedicati film, poesie, canzoni – cammina come in una favola, viaggia, e la sua storia, che racconta la nostra storia migliore, sarà raccontata, diventerà magari favola, mito, leggenda.
Il modello Riace è stato chiuso troppo tardi anche per tanti pigri politici ed intellettuali italiani e calabresi, per molti retori e professionisti dell'autoreferenzialità, dell'io e non del noi, del noi contro gli altri. Non abbiamo più alibi dopo Mimmo Lucano. Diamogli i premi, le cittadinanze, il Nobel, ma la cosa migliore sarebbe fare vivere Riace e fare nascere altre Riace, su quel modello e necessariamente al di là di esso. Non credo che Riace fosse diventata la città del Sole (non era possibile in questo contesto) e credo anche che non bisogni inventare eroi e santi per poi lasciarli soli. Riace non vivrà se non sorgeranno altre Riace: forse questo doveva essere capito prima da quanti adesso si affrettano a esaltare un modello che, pur potendo, non hanno condiviso, non hanno sostenuto, non hanno messo in atto.
Dopo la vicenda di Mimmo, la favola di Mimmo, almeno a nessuno è più consentito dire: «qui non c'è più niente da fare»; «qui sono tutti uguali», «la colpa è degli altri»; «non si può cambiare nulla». Ognuno può fare qualcosa, cambiare è possibile legando dolore e speranza, disperazione e utopia. Realizzare piccole utopie quotidiane è una possibilità di tutti.

*Antropologo e scrittore