Bilbao fino agli anni Novanta viveva il dramma di una disoccupazione superiore al 20%: è stata quasi azzerata dopo che si è scommesso sull’arte e sulla cultura come veicoli di turismo e benessere. Nella Reggio che si candida a Capitale italiana della Cultura con la costruzione del suo Museo del Mare si potrebbe innescare un circolo virtuoso analogo a quello determinatosi nella città basca con la realizzazione del museo Guggenheim. Il trend positivo innestato in un territorio sottosviluppato dalla costruzione di un edificio-simbolo è stato appunto definito “effetto Bilbao”. Proviamo a sintetizzarne la ratio e la storia.
Dal 1997, da quando l’architetto Frank Gehry completa il suo Guggenheim, cambia profondamente l’uso e il significato dell’architettura nel mondo. Il museo di Bilbao, infatti, inaugura una nuova epoca architettonica, etichettata anche come architettura-spettacolo: da arte o scienza funzionale a dare un alloggio alle persone o una sede alle istituzioni, l’architettura diviene strumento per creare un simbolo, un’icona, una chiave di lettura di un luogo, un mezzo per meglio definire o implementare l’identità di una città o di una regione.
Il Guggenheim così come lo si osserva è indubbiamente anche frutto di una fortunosa circostanza: il luminescente rivestimento in titanio non ci sarebbe stato a causa dei suoi costi inaccessibili se negli anni Ottanta la Russia, maggiore produttrice del metallo, in piena crisi economica non ne avesse messo in commercio un surplus facendone crollare il prezzo. Ma il resto è tutto frutto dell’ingegno e della capacità visionaria del costruttore, che tra l’altro ha scompigliato gran parte dei principi dell’ingegneria utilizzando alcuni software dalle enormi potenzialità in uso all’industria aeronautica. La spregiudicatezza del design e le superfici asimmetriche rivestite di titanio hanno fanno del museo Guggenheim un’icona culturale capace di attirare nel nord ovest della Spagna, alla periferia dei flussi turistici tradizionali, una tale corrente di visitatori da cambiare l’economia della regione.
Marc Augé, l’antropologo francese più volte ospite della nostra città, ha detto l’architettura “surmoderna”, creatrice di non-luoghi, non può essere giudicata secondo parametri che poggiano su concetti di luogo o contesto o storia: dagli inizi degli anni Novanta un certo numero di architetti sulla cresta dell’onda si cimenta in edifici-simbolo “surmoderni”, sganciati dal territorio ma in grado di infiammare l’immaginario collettivo. Questi artisti/ingegneri, interpretata l’architettura come una lingua franca da usare liberamente in un mondo globalizzato in cui le grandi città ospitano edifici potenzialmente interscambiabili, sono in grado di creare edifici come segni artistici: pur slegati dal territorio che li ospita, sono comunque in grado di trasformarlo e, proprio in ragione della loro neutralità antropologica, di conferirgli nuovi significati.
Con Marc Augé e con Zaha Hadid possiamo quindi ipotizzare che un edificio iconico come il Museo del Mare, apparentemente esteticamente sganciato dalla storia dei luoghi, possa contribuire a ridefinire e rafforzare l’identità della città, contestualmente inducendone, come avvenuto a Bilbao, uno sviluppo economico su base culturale e turistica.