Alessandra Sgarella, madre adottiva di Ivan Luca Vavassori, aveva 39 anni quando venne sequestrata da un commando della ‘ndrangheta di Platì, il centro aspromontano del Reggino considerato la capitale della ‘ndrangheta. Era il pomeriggio dell’11 dicembre del 1997. L’imprenditrice si apprestava a parcheggiare nel box la propria autovettura – una Grand Vitara – sotto l’abitazione in viale Caprilli, nel cuore del quartiere milanese di San Siro, dove risiede con il marito Pietro Vavassori. Fu immobilizzata e subito dopo probabilmente condotta in una delle tante prigioni di passaggio che la ‘ndrangheta utilizzava in Lombardia, in attesa di trasferire i sequestrati in Aspromonte.
All’epoca del rapimento, il marito Pietro Vavassori era amministratore delegato della Italsempione spa, un’azienda di trasporti e logistica con sede operativa a Cornaredo, con un fatturato di circa 240 miliardi di vecchie lire e 180 dipendenti, il cui proprietario era il padre della Sgarella. Del gruppo dei sequestratori, si sarebbe poi saputo, fecero parte Francesco Perre e Saverio Trimboli, elementi di primo piano della ‘ndrangheta di Platì, affiliati alla ‘ndrina dei Barbaro “i castani”. Nonostante fossero latitanti da tempo al momento del sequestro, Perre e Trimboli operavano in Lombardia, in raccordo con la ‘casa madre’ aspromontana. Il 22 dicembre successivo, esattamente undici giorni dopo la scomparsa, il gip del tribunale di Milano Guido Salvini dispose il sequestro dei beni della famiglia, mentre il rapimento, tra le fila degli inquirenti, fu definito un “giallo”. Il 15 gennaio la famiglia di Alessandra Sgarella si rivolse ai rapitori con un appello chiedendo a “chiunque è in grado di fornire notizie serie ed oggettivamente utili per ritrovare Alessandra, prenda contatto con noi con qualsiasi modalità”. Sei giorni dopo, il 21 gennaio, i sequestratori si fecero sentire chiedendo 50 miliardi di vecchie lire per la liberazione della giovane donna, una cifra, a quel tempo, enorme.
I rapitori, per legittimare la loro richiesta dimostrando che l’ostaggio era nelle loro mani, come prova che Alessandra Sgarella era viva, resero noto un particolare di cui erano a conoscenza solo i familiari della donna: la data sbagliata del matrimonio incisa sulla fede nuziale. Seguirono lunghi mesi di attesa e di silenzi da parte dei sequestratori, ma il 26 giugno del 1998, i familiari di Alessandra Sgarella, con un comunicato stampa, resero noto “di non essere mai stati messi al corrente dei risultati delle indagini e tanto meno delle scelte investigative” manifestando la loro piena disponibilità a ogni iniziativa utile per consentire il ritorno a casa di Alessandra”. La famiglia rinnovò la richiesta di silenzio stampa. Da quella data in poi, sul sequestro calò un silenzio gravido di incertezza circa l’esistenza in vita della giovane imprenditrice. Ma alla fine di agosto, Pietro Valsecchi giunse in Calabria e alloggiò a Siderno. Fu interrogato e riferì di avere “la sensazione di una prossima liberazione della moglie”. Che puntualmente avvenne la sera del 4 settembre 1998. Alessandra Sgarella fu rilasciata in contrada ‘Moschetta’, vicino a Locri e non in Aspromonte, una zona di campagna abitata da pochissime famiglie, in cambio di un riscatto di circa cinque miliardi di lire. Provata fisicamente e impaurita, Alessandra suonò al campanello dell’abitazione di Salvatore Caruso e chiese di potere fare una telefonata per avvertire qualcuno di essere libera. Di lì a poco, dai Caruso si presentò una pattuglia della Polizia che condusse la donna al locale commissariato. “Non è stata una bella esperienza – disse a giornalisti ed investigatori – e 266 giorni prigioniera non sono stati pochi”. Alessandra Sgarella morì prematuramente a 52 anni, nell’agosto del 2011.
(AGI)