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Calunnia ai danni del magistrato Alberto Cisterna: condannato a cinque anni il pentito Lo Giudice

Il collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice è stato condannato in via definitiva a 5 anni di carcere per calunnia ai danni del magistrato Alberto Cisterna. La Corte di cassazione ha infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai legali del pentito, confermando così la sentenza che era stata emessa nel novembre del 2024 dalla Corte d’appello di Firenze.

Il processo si è celebrato nel capoluogo della Toscana dopo che la Suprema Corte, nel 2023, aveva annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di Lo Giudice che era stata emessa dalla Corte d’appello di Perugia, che aveva riformato la condanna di primo grado. Lo Giudice, nel 2011, nel corso di due interrogatori davanti all’allora procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone e al sostituto procuratore Beatrice Ronchi, “incolpava Alberto Cisterna – secondo quanto hanno scritto in sentenza i giudici della Corte d’appello di Firenze – del reato di corruzione in atti giudiziari, sapendolo innocente, riferendo di aver appreso dal fratello Luciano Lo Giudice che il medesimo aveva pagato al Cisterna, all’epoca in servizio alla Procura nazionale antimafia, una grossa somma di denaro affinché al loro fratello Maurizio Lo Giudice, gravemente malato e ristretto presso il carcere di Milano ‘Opera’, venisse concessa la detenzione domiciliare”.

A seguito delle dichiarazioni del pentito, Cisterna era stato iscritto nel registro degli indagati ma, dopo “accertamenti capillari che avevano riguardato la vita e le finanze del magistrato”, la sua posizione era stata archiviata perché è stato escluso che “avesse mai ricevuto somme di denaro illecite o anche solo ingiustificate da chicchessia”. Secondo la Corte d’appello di Firenze, inoltre, Lo Giudice ha “mentito sapendo di mentire”.

Nella sentenza diventata definitiva, si afferma che il pentito ha calunniato Cisterna, oggi in servizio alla Procura generale della Cassazione, “in modo da ottenere il duplice vantaggio di consolidare la sua posizione di soggetto utile agli altri inquirenti e di regolare i conti con un magistrato che lo aveva arrestato in precedenza. Ha manifestato al massimo la sua attitudine a dire e non dire, accusare e ritrattare, piegando la realtà dei fatti al suo personale desiderio di vendetta, e allo scopo di lucrare benefici dallo Stato”.

Nella sentenza della Corte d’Appello di Firenze, infine, si afferma che Lo Giudice ha “un modo di agire subdolo” e, “per accreditarsi quale utile collaboratore e per lucrarne i benefici non ha esitato a calunniare un uomo delle istituzioni, dalla carriera specchiata, gettandolo in un tritacarne mediatico, che ne ha distrutto la reputazione e la professione”.

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