L’aria che si respirava ieri alla Ubik di Cosenza era quella che solo una libreria sa regalare: un luogo dove storie e pensieri trovano casa, pronti a essere scoperti, condivisi, vissuti. Tra gli scaffali perfettamente ordinati e carichi di promesse letterarie, il numerosissimo pubblico si è lasciato trasportare nella magia della presentazione di “I titoli di coda di una vita insieme“, il nuovo libro di Diego De Silva. Un incontro che ha visto dialogare lo stesso De Silva con la giornalista Concetta Guido e la direttrice del Sila, Gemma Cestari, e che ha saputo regalare emozioni profonde, grazie all’intenso coinvolgimento dei partecipanti. Una bella conferma, ancora una volta, della vitalità del Premio Sila, giunto alla sua tredicesima edizione.
Un dialogo tra letteratura ed emozione
L’incontro si è aperto con il contributo di Gemma Cestari, direttrice del Premio, che ha offerto una lettura appassionata dell’opera di De Silva, citando un celebre passaggio di “Il giovane Holden” di J.D. Salinger: «Vorrei iniziare con una cosa che gli devo. “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando hai finito di leggere tutto quel che segue, vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Avete riconosciuto tutti la celeberrima frase di Holden Caulfield, ed è esattamente quello che ho pensato nel mio primo impatto meraviglioso con il primo libro di Malinconico – ha esclamato Cestari –. Ho proprio pensato: ma questo perché mi sta dicendo delle cose che riguardano la mia vita? E io non sono un avvocato, però aveva quella stessa ricerca di assoluto, quello stesso tratto di innocenza, di ricerca di purezza, da farmi pensare immediatamente di aver trovato un fratello maggiore napoletano e per di più avvocato del Giovane Holden».
La giornalista Concetta Guido ha poi preso la parola, entrando subito nel cuore del libro: «Fosco e Alice sono i protagonisti, marito e moglie. Lui è uno scrittore e lei un medico oncologo. Sono i titoli di coda di una vita insieme, del loro amore, di un grande amore. Stanno diventando due isole, come posso dire, dello stesso arcipelago. Ma c’è una frase ricorrente di Fosco che mi colpisce tra i tanti suoi pensieri detti ad alta voce al lettore. Lui dice che di fronte alla fine di un amore, la differenza tra la ragione e il torto non ha più senso. E questo penso che sia il cuore vero. Ma poi dice anche un’altra cosa: lui avrebbe passato la sua vita con Alice anche da infelice…». De Silva, visibilmente emozionato dalla calorosa accoglienza, ha risposto: «Sono felice di partecipare a questo Premio. Tra l’altro vedo che c’è una concorrenza di altissima qualità di colleghi, uno più bravo dell’altro, quindi sono anche un po’ spaventato. Però incrociamo le dita. Cosa vi posso dire del libro? Intanto sono partito volutamente dalla fine. Ho voluto omettere tutto ciò che riguarda l’accaduto che ha portato Fosco e Alice alla decisione di divorziare, perché se avessi fatto questo avrei fatto del pettegolezzo sul matrimonio, cosa che non mi interessa. L’attacco del libro, l’incipit è: “Alice e io ci vogliamo bene, per questo ci stiamo lasciando”. Che è un paradosso, ma è paradossalmente vero».
“Un po’ di tenerezza”
L’autore ha poi approfondito il tema della separazione: «Davanti alla consapevolezza che l’amore è finito ci sono due possibilità: o arrendersi ad una vita un po’ insapore, inodore, in cui l’amore è andato via ed è rimasto dell’affetto o, come cantava meravigliosamente Fabrizio De André, “un po’ di tenerezza”, oppure affrontare la realtà guardandosi in faccia e dirsi: “Ci siamo amati tantissimo, ma è finita.” E questo comporta una certa dose di irresponsabilità nel lanciarsi nella vita che ricomincia. La separazione è una cosa che tende ad avvenire quando la vita è già a metà del guado. Per cui non è che ricomincio. Ricomincio da dove? Con chi? Facendo cosa?».
De Silva ha inoltre condiviso una riflessione critica sul linguaggio delle separazioni: «Dal momento in cui si pronuncia la parola “separazione”, scatta un meccanismo che non si ferma più. E qui nasce un problema perché Fosco è uno scrittore e ha un rapporto molto alto con la parola e non ci sta all’idea di mortificare il suo matrimonio nel grigiore miserabile del linguaggio giuridico. Chi ha esperienza di separazione sa che quella è una delle situazioni più mortificanti della vita, perché ci si trova ridotti a un paio di fogli spillati con un mandato a margine con poche frasi di rito, di circostanza, usate abitudinariamente anche dagli avvocati più bravi. Questo linguaggio scadente riduce tutto a pochissimo. Il diritto si arroga il diritto di entrare all’interno di una storia d’amore che finisce, dettando delle regole per la gestione della separazione. È intollerabile già sul piano concettuale, ma soprattutto sul piano linguistico».
La Decina 2025 prosegue
L’incontro con Diego De Silva rappresenta il secondo appuntamento della Decina 2025 e conferma la vivacità culturale del Premio Sila ’49. La rassegna proseguirà nelle prossime settimane con altri autori finalisti, continuando a offrire al pubblico cosentino occasioni di confronto e approfondimento letterario.
Al termine dell’incontro, Gemma Cestari ha commentato: «La serata con Diego De Silva ha rappresentato un momento di straordinaria intensità. Il pubblico ha risposto con entusiasmo, creando quell’alchimia speciale che si verifica quando un libro tocca corde profonde. De Silva ha saputo raccontare la fine di un amore con una delicatezza e un’ironia che solo i grandi scrittori possiedono. Il suo romanzo rappresenta perfettamente lo spirito del Premio Sila: opere che sanno unire qualità letteraria e capacità di dialogo con il lettore».
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Tre domande a Diego De Silva
Abbiamo voluto approfondire ulteriormente alcuni dei temi del libro con l’autore…
Nel romanzo, Fosco rifiuta il linguaggio burocratico dei tribunali per riscrivere la propria separazione con parole autentiche. Come questa scelta riflette il suo rapporto personale con il potere narrativo delle parole?
«Il linguaggio giuridico riduce una storia d’amore a formule vuote, a “fatti che hanno reso impossibile la convivenza”. Fosco, come scrittore, non poteva accettare quella mortificazione. Volevo mostrare che, anche nella fine, esiste una dignità possibile: trasformare il dolore in racconto. Le parole non sono solo strumenti, sono ponti per conservare ciò che sembra perduto. Fosco e Alice scelgono di scrivere i loro “titoli di coda” perché credono che la verità di un amore sopravviva solo se narrata con autenticità, lontano dal grigiore delle aule».
Gemma Cestari ha sottolineato che il suo romanzo è un “atto politico” per aver anticipato il declino delle libere professioni. Crede che la letteratura abbia ancora il dovere di denunciare le ingiustizie sociali, come ha fatto nel 2007 con Malinconico?
«La letteratura non deve essere un manifesto, ma non può ignorare il mondo in cui vive. Con Malinconico, ho raccontato una generazione che ballava sul Titanic, inconsapevole del declino. Oggi quel declino è realtà, eppure pochi ne parlano. Scrivere di liberi professionisti, di coppie che affrontano la separazione, è un modo per restituire voce a chi è stato rimosso. La politica ignora queste fratture, ma i romanzi possono aprire discussioni. Non offrono soluzioni, ma costringono a guardare in faccia ciò che si preferisce nascondere».
Nel libro, ha volutamente omesso gli eventi che portarono al divorzio di Fosco e Alice. Perché ha scelto di concentrarsi solo sulle conseguenze, e non sulle cause della loro separazione?
«Volevo evitare il pettegolezzo sul “perché” si sono lasciati. Le cause sono spesso banali, o troppo private. Ciò che mi interessava era esplorare cosa succede dopo: come due persone che si sono amate profondamente gestiscono il vuoto, come cercano di trasformare un fallimento in un nuovo inizio. Fosco e Alice non sono nemici, sono due isole dello stesso arcipelago. La loro sfida non è litigare sul passato, ma trovare un linguaggio comune per dare senso a ciò che resta. È in questo spazio che nasce la possibilità di una bellezza imprevista».