di Alfredo Muscatello – A tavola, a Natale. Si parla un po’ di tutto, vita, lavoro… non manca la politica e oggi più che mai, l’ai, C’è una parola che torna sempre quando l’uomo si trova stretto tra ciò che sa fare e ciò che sta per essere sostituito, resistenza.
La immaginiamo come un gesto eroico, una presa di posizione netta. In realtà, quasi sempre, è qualcosa di più ambiguo, paura travestita da conservazione, attaccamento scambiato per identità, difesa del noto contro l’ignoto.
A un certo punto, mentre si parlava di lavoro, di cambiamenti, di ‘sta benedetta evoluzione che dovrebbe salvarci tutti se non affossarci, salta fuori lo zoccolo di legno, il sabot, e il motivo per il quale diventa matrice della parola sabotaggio. Racconto condiviso apparentemente senza connessione, da una persona saggia, una di quelle che non alza la voce ma allunga il pensiero.
La parola sabotaggio nasce in Francia, tra fine Settecento e inizio Ottocento, nel pieno della rivoluzione industriale. Viene da “sabot”, che in francese indica uno zoccolo di legno, la calzatura dei contadini e degli operai, usata in una delle prime manifestazioni di classe per bloccare l’avvento delle macchine. Durante la rivoluzione industriale quella resistenza prese proprio quella forma. Non tanto l’atto plateale di distruggere una macchina, quanto il gesto più sottile e disperato di incepparla. Non per odio verso il progresso, ma per difesa di un tessuto umano ed economico che fino a quel momento aveva funzionato secondo una logica comprensibile: domanda, offerta, mestiere, dignità.
Ora, gli operai che sabotavano le macchine non erano contro il progresso. Erano contro il fatto che il progresso fosse diventato una scusa per fare profitto sulla pelle altrui. Il telaio non era il nemico.
Il nemico era la velocità con cui il capitale decideva di riorganizzare il mondo, lasciando indietro chi non aveva il tempo, gli strumenti o il potere per riconvertirsi. Era un tentativo disperato per rallentare un attimo, capire che stesse succedendo. Ecco, oggi siamo esattamente lì, solo che al posto del telaio c’è l’intelligenza artificiale, e al posto degli operai con gli zoccoli c’è una quantità imbarazzante di professionisti che fanno finta di niente, sperando che passi.
Ogni grande trasformazione tecnologica viene raccontata come “inevitabile”. È vero solo a metà. Perché ciò che è inevitabile non è come evolve la tecnologia, ma che qualcuno ne orienti l’uso. E quasi sempre quel qualcuno non è la collettività, ma chi ha investito per trarne il massimo profitto nel minor tempo possibile.
La fotografia è dentro questo problema fino al collo. Per anni ci siamo raccontati che fosse intoccabile: creativa, umana, irripetibile. Tutto vero. Ma irrilevante, se non si capisce dove sta andando il valore. Perché il punto non è se l’AI farà foto migliori o peggiori. Il punto è che fare foto non basta più o meglio non è mai bastato. Se il mestiere del fotografo coincide solo con la produzione di immagini, si è già in concorrenza con una macchina che lavora di più, costa meno e non si stanca mai. Fine della discussione.
La fotografia, oggi, o diventa pensiero, oppure diventa file.
O costruisce senso, contesto, visione, oppure è solo materiale grezzo in un flusso che qualcun altro monetizzerà meglio e più velocemente. Chi non sta ripensando adesso alla propria offerta, in ogni settore non solo fotografico, al proprio ruolo, alla propria funzione culturale, non è prudente. È in ritardo! E il ritardo, nella storia, non è mai stato un atto rivoluzionario.
Poi c’è la politica, che dovrebbe fare una cosa semplicissima: governare l’evoluzione tecnologica. Misurarla, indirizzarla, impedirle di diventare un giocattolo nelle mani del capitale più veloce e più cinico. Peccato che oggi la politica sia spesso popolata da persone che non pensano, reagiscono. Non progettano, inseguono.
A volte sembra che i nostri politici parlino come se fossero suggeriti da un algoritmo: stessi slogan, stessi riflessi, stessi processi logici servi di un profitto facile e veloce, stesso cavallo vincente su cui puntare e il cavallo vincente, guarda caso, è quasi sempre quello che porta al controllo, conflitto, guerra. Perché la guerra rende! Sempre. Subito.
Come ricordava Enrico Berlinguer, tutte le libertà sono da difendere, tranne quella che si esercita contro la libertà e la dignità di altri uomini. Perché non esiste progresso, né sviluppo, né innovazione che possa dirsi tale se costruita sulla pelle di qualcuno.
L’intelligenza artificiale non riguarda solo il lavoro creativo.
Riguarda il potere.
E se il potere è in mano a gente senza spessore, senza cultura, senza senso del limite, allora non stiamo andando verso il futuro. Stiamo accelerando verso una versione più efficiente degli stessi disastri.
La storia è piena di uomini convinti di essere grandi, e ricordati invece come enormi fallimenti morali, trascinandosi dietro eserciti di speculatori pronti a fare cassa anche sull’abisso. Forse, allora, il vero sabotaggio oggi non è rompere una macchina.
È fermarsi a pensare, quando tutti corrono.
È sedersi a un tavolo, come a Natale, e fare quello che sembra inutile ma non lo è mai, ragionare su dove stiamo andando, e su chi ci sta portando lì.
