di Mariagrazia Costantino* – Una delle cose che più mi colpì della Cina durante le mie prime visite fu la presenza pervasiva di altoparlanti che riproducevano non-stop musica tradizionale, stridula e lamentosa. Melodie sentimentali e patetiche che preconizzavano l’avvento di una nuova era: quella del neo-melodico cinese (solo che più che neo è “lao”, ossia “vecchio” in cinese). Una scelta che sembra frutto della volontà di intrattenere e cullare dolcemente la popolazione, ma che in realtà cela qualcosa di più oscuro: se si andrà nelle campagne e nelle periferie dove i turisti e gli stranieri non capitano quasi mai, si scoprirà con sconcerto che al posto della musica ci sono camionette e furgoni che vanno in giro riproducendo slogan di Stato in modo quasi ossessivo. Questo è valso e vale tuttora per tutte le campagne lanciate dal Partito Comunista Cinese, compresa quella del figlio unico che adesso, per ovvi motivi, non è più in vigore.
Un arrotino che invece di arrotare coltelli arrota cervelli.
Una costante del maoismo era il frastuono: musica rivoluzionaria riprodotta ovunque e di continuo. Cori, slogan, marce. Una mobilitazione costante cui si accompagnava la claque di patrioti: una festa ininterrotta, forzatamente gioiosa ma anche lugubre e parossistica.
Nella Corea del Nord, piccole casse sono sistemate in ogni abitazione e restano accese per tutta la giornata, riproducendo musica di stato e i discorsi del dittatore, il feroce Ciccio Kim. Chi vive al confine tra le due Coree può sentire l’eco inquietante di potenti altoparlanti continuamente in funzione, per guidare, ammonire, ma soprattutto rimbambire.
Una strategia vecchia come il mondo che ancora oggi dà i suoi frutti: nella Cina comunista, nella blindatissima Corea del Nord, e nei tanti territori colonizzati dall’Islam dove la preghiera dei muezzin chiama a raccolta i fedeli e si trasforma in un’implicita condanna degli infedeli.
Muezzin, timoniere, DJ: i lavori del futuro insieme a quello del politico alla Salvini. Come dimenticare infatti le immagini edificanti del “capitano” al Papeete con mojito in mano e BPM (e qualcos’altro) in testa?
Qualcuno direbbe che amministrare un territorio non è così diverso dal fare il DJ, o ancora meglio l’MC, il “master of ceremony.” A Reggio Calabria però la metafora l’hanno presa alla lettera e gli amici di calcetto della Giunta Comunale hanno trovato la formula perfetta di governo (hanno “craccato il code”): inondare la città di DJ set, annegarla nel rumore come se non ci fosse un domani.
Se andate in giro noterete la presenza di console ogni venti metri: postazioni improvvisate che sparano musica più o meno inascoltabile creando una cacofonia e mescolandosi con la musica natalizia diffusa sul corso cittadino, occasionalmente intermezzata da preghiere. Reggio Calabria come Pyongyang (o Teheran): tutta rave e rosari; Bob Sinclar e Ave Marie. Certo dietro la presenza di questi edificanti rituali di evasione c’è lo zampino dei privati, ovvero i vari locali che oramai si pongono come i veri attori culturali della città (non c’è da stupirsi in un Paese che punta tutto sull’alimentare, anzi sul “food” come dicono quelli bravi), ma ci vogliono pur sempre i permessi, e la sensazione è che il Comune sia ben lieto di concederli e di favorire, spesso finanziare, qualsiasi iniziativa volta a creare un tappeto sonoro indistinto. Un ronzio incessante che più ci si avvicina più diventa invadente e rintronante.
Io mi guardo attorno e vedo che nessuno fa un plissé: assediati e aggrediti da questa onda d’urto, gli abitanti che popolano il presepe cittadino nel ruolo che più gli si confà, accettano di essere guidati a destra e a manca dal padrone di turno e si fanno andare tutto bene. In fondo l’hanno voluto loro e devono mostrarsi felici anche se non lo sono. Guai a dare segni di insofferenza o insoddisfazione. Soprattutto, mai farlo con chi vuole vederli sempre allegri e obbedienti – le “autorità”, in qualsiasi declinazione possibile.
E siccome alla base di tutto ci sono la matematica, l’economia e la psiche, è chiaro che l’aumento del rumore è proporzionale all’aumento della povertà, del disagio e della solitudine amplificata e aggravata dalla dipendenza digitale.
Altra fonte di inquinamento acustico, oltre alle automobili di tutte le cilindrate e condizioni – comprese le ridicole macchinette in cui i ragazzini amano inscatolarsi – che vanno in giro sparando musica abominevole a tutto volume, sono gli spettacoli folk improvvisati: balletti e mottetti, tarantelle e cose belle. A ribadire che qui è la tradizione a comandare. Soprattutto quella di un certo tipo. Quella che se non può mandare le capre, manda i pastori.
Già. La tradizione. Peccato che poi nessuno abbia tempo e voglia di ascoltare gli anziani, la vera memoria storica del territorio. Gli stessi anziani che ci ricordano una sempiterna verità: a fare più rumore sono sempre i carretti vuoti.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica
