Anche un “affiliato” alla ‘ndrangheta in Calabria, “soprattutto in un territorio vasto e pieno di ‘occasioni’ illecite come Milano” può “commettere reati ‘generici’, in particolare, come nel caso in esame, nel campo dello spaccio delle sostanze stupefacenti, autonomamente e per un diretto interesse personale”. Lo scrive il gup di Milano Guido Salvini nelle motivazioni della sentenza con cui, il 15 settembre scorso, ha condannato a 12 anni di reclusione Luigi Aquilano, genero del boss Antonio Mancuso, vertice della cosca della ‘ndrangheta di Limbadi (Vibo Valentia), per narcotraffico ed estorsioni con l’aggravante del metodo mafioso, ma non riconoscendo, invece, l’imputazione di associazione mafiosa per lui ed altri imputati, come era stata contestata dal pm Alessandra Cerreti.
Accusa che era caduta, tra l’altro, anche nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Lidia Castellucci. Aquilano era finito in carcere a fine luglio 2022 in un’inchiesta della Dda di Milano su narcotraffico ed estorsioni, come “recupero crediti”, con presunti legami coi clan.
E’ “estremamente probabile, pressoché certo, che Luigi Aquilano e altri soggetti”, scrive il gup, “che compaiono nel processo, siano stati, quando vivevano in Calabria, affiliati alla ‘ndrangheta con le modalità previste da tale associazione criminale”. Tuttavia, Aquilano a Milano si muoveva, in pratica, da solo “secondo necessità e non in base ad una programmazione diretta e concordata con una realtà mafiosa sovrastante chiamata a dare la sua autorizzazione”.
Il termine “banda”, usato in alcune intercettazioni dell’indagine, chiarisce il giudice, “diversamente da quanto ha osservato il Pubblico Ministero ritenendo questa qualifica un rafforzamento indiretto dell’ipotesi d’accusa, è in realtà semplicemente un termine piuttosto spregiativo in quanto né la ‘ndrangheta né altre consimili organizzazioni mafiose certo hanno e offrono l’autorappresentazione di sé stesse e della propria storia come una semplice ‘banda’”. Per il gup, non riconoscere che anche un presunto affiliato alle cosche possa muoversi in autonomia commettendo reati generici, “significherebbe incasellare a forza in uno schema qualsiasi anche autonoma attività criminosa, che rappresenta del resto uno stile di vita di molti soggetti”.
Dall’inchiesta era emerso anche che Aquilano, 45 anni, gestiva un bar in via Manara, proprio a fianco al Palazzo di Giustizia di Milano, e che da quel locale Rosaria Mancuso, la moglie (non indagata), avrebbe cercato di assumere “informazioni” su “alcuni magistrati” che lo frequentavano (nessun reato contestato sul punto). Il giudice ha condannato altri 20 imputati a pene fino a 5 anni (più alte rispetto alle richieste), tra cui 3 anni a Nazzareno Calajò, presunto “ras della droga” alla Barona, storico quartiere popolare di Milano, arrestato lo scorso aprile in un’altra inchiesta su traffici di droga, che ha fatto emergere anche contrasti con ultras della curve di San Siro.
Sui legami di Aquilano con il clan Mancuso il gup ha trasmesso gli atti ai pm di Catanzaro. Nel processo due imputati che erano accusati solo di associazione mafiosa sono stati prosciolti.
L’inchiesta, come ricostruito negli atti, era nata dalla paradossale vicenda di un “pizzino” infilato in un muro da una persona (seguita nelle indagini ma mai indagata di fatto) e che era stato, poi, buttato via da un netturbino di passaggio che l’aveva notato.