"Voce del verbo restare". Arcangelo Badolati

badolatiarcangelodi Valeria Guarniera - L'attaccamento alla sua Calabria  - "il posto più bello del mondo" -  emerge dalle sue parole ed è riflesso nei suoi occhi. E' un uomo del Sud, Arcangelo Badolati, legato profondamente alle sue radici. Un legame vivo che si nutre di odori, sapori, colori. E si arricchisce di storia, tradizioni, cultura.  Per lui "questo cielo" è casa.  Giornalista professionista, è caposervizio del quotidiano "La Gazzetta del Sud". Autore di numerose pubblicazioni sulle devianze criminali e i misteri calabresi, ha seguito, negli ultimi vent'anni, i più importanti processi celebrati in Calabria. E' componente del Centro di documentazione e ricerca sul fenomeno mafioso dell'Università della Calabria e docente presso l'Ateneo al Master sull'Intelligenze. Ha collaborato con "Il Tempo" di Roma, "L'Indipendente" di Milano e l'Agenzia giornalistica Italia (Agi). E' autore, con Marisa Fallico, Di "Nera di Calabria", una delle trasmissioni più seguite della regione.

Quella del giornalismo è una passione che coltivi da ragazzo.  Ai tempi del liceo, scrivevi per il giornalino della scuola. Che ricordo hai di quegli anni? Hai subito capito che sarebbe stata la tua strada?

"Fondamentali quegli anni, ho capito subito che quella sarebbe stata la mia strada. Era una passione motivata dalla curiosità, dalla fantasia, dalla libertà. Scrivere mi dava delle forti sensazioni. Fondammo questo giornalino che poi, negli anni successivi, uscì dalla scuola e restò in vita per un certo periodo. Si chiamava "Peperoncino", lì scrivevamo della città, di quello che succedeva intorno a noi. Per seguire questo percorso sono andato anche un po' contro quelle che erano le indicazioni della mia famiglia. Per loro, inizialmente, fare giornalismo significava non fare niente. In una famiglia fatta di generazioni di avvocati ero visto come uno scapestrato. Poi – dopo un po' di tempo – ci hanno ripensato e hanno cambiato idea"

Poi la collaborazione con "La Gazzetta del Sud": facevi il corrispondente da Palmi, il tuo paese.  Eri giovanissimo e già ti occupavi di cronaca nera e giudiziaria. Frequentavi le aule dei tribunali per seguire i processi  importanti.  Eri un giovane appassionato che – senza esperienza – incontrava un mondo più grande di lui denso di situazioni difficili da raccontare. Quanto è stato difficile intraprendere questo percorso? C'è stato qualche momento in cui hai dubitato di quello che stavi facendo?

"Si, è stato molto difficile. Quando ho cominciato io non c'erano tanti giornali. Riuscire a fare il corrispondente per La Gazzetta del Sud da un centro importante come Palmi era già un grande successo. E per metterti in evidenza, per fare davvero il giornalista dovevi seguire le "cose scomode". Ciò significava occuparsi di omicidi, di faide. Anche nei paesi vicini, io mi tuffavo in tutte le cose pericolose. Significava stare nei tribunali, seguire i processi. All'epoca c'erano processi e inchieste molto importanti. E c'era Agostino Cordova, un vero terremoto come magistrato che fece delle cose importantissime. Un po' di lui mi innamorai: era un grande magistrato ma, prima di tutto, un uomo molto coraggioso. E' stato molto difficile. Spesso guadagnavo meno di quanto spendevo al telefono. Ero però cresciuto – grazie a mio padre - anche leggendo La Gazzetta e ricordo i pezzi di Luigi Malafarina: ti potrei dire ancora oggi i nomi dei poliziotti e dei carabinieri che agivano in quegli anni e che nella mia fantasia di ragazzino erano quasi degli eroi"

"Il giornalismo è un mestiere bellissimo – hai detto – ti permette di raccontare la tua terra, nel bene e nel male". Come si diventa bravi giornalisti? Qual è la caratteristica che proprio non deve mancare?

"La passione e il coraggio. In Calabria giornalismo significa militanza, non è solo raccontare i fatti. Chi dice queste cose dice delle cose non vere. In Calabria non c'è bisogno di gente che racconti in maniera sterile i fatti, ripulendoli e offrendoli come se fossero carne da mettere sul banco del macellaio. In Calabria, per la situazione che c'è sempre stata,serve passione e serve coraggio"

Accedere a questa professione non è facile: giovani praticanti, in giro a consumare le suole, ricchi solo della loro passione. Ma non si vive di sola gloria e le soddisfazioni economiche, quando arrivano, si fanno desiderare. Rispetto a quando hai iniziato tu, cos'è cambiato? La situazione è migliorata o peggiorata?

"Credo che la situazione sia migliorata. Io ho cominciato facendo il corrispondente e tutta la mia carriera si è sviluppata nel giornale. Ho fatto una grande gavetta per arrivare a fare il caposervizio ed era difficilissimo perché la testata che esisteva era solo quella. Rispetto ad allora sono cambiate tante cose in positivo e sicuramente ci sono più possibilità. Ci sono i giornali online e c'è un maggior numero di testate: chi vuole fare questo mestiere trova più facilmente una porta aperta. I giornali online sono molto importanti solo che per chi scrive sul cartaceo penso siano pure un danno perché anticipano di un giorno le notizie. Tra l'altro ci sono giornali online con giornalisti bravissimi ed io stesso li consulto: quando scatta un'operazione la vedo già tutta raccontata dopo due ore. I giornali online hanno consentito anche la crescita di una classe di giornalisti ottima. Ne penso tutto il bene possibile solo che essendo parte di un giornale cartaceo mi rendo conto che ci rubano le notizie, ci battono sul tempo".

Hai seguito, negli anni, fatti molto gravi. Hai spiegato cos'è la criminalità organizzata e svelato alcuni segreti della 'ndrangheta. Hai fatto nomi. Hai portato alla luce fatti, trattando argomenti scomodi e   raccontando un mondo che – per sopravvivere – ha bisogno di rimanere nascosto nell'ombra.  Per questo, hai mai subìto minacce? Che rapporto hai con la paura?

"In Calabria, scrivendo di certe vicende, puoi essere mal sopportato: porti alla luce fatti e racconti di persone che vorrebbero nutrirsi del silenzio.  Ho paura come tutti, non ci sono eroi. Credo che molte situazioni siano enfatizzate. La paura và gestita.  Ho ricevuto minacce di tutti i tipi ma non ho mai desistito e non ho voluto pubblicizzare i problemi che ho avuto, un po' perché mi dava fastidio l'idea di poter generare effetti emulativi e anche per non fare spaventare i miei genitori e i miei figli. Sono sempre stato molto riservato e discreto".

Il tuo lavoro, quanto ha inciso sulla tua vita personale? Ti è mai capitato di scrivere di qualche tuo conoscente?

"Si. Quando facevo il corrispondente scrissi di un amico di mio padre (era un avvocato,un caro amico di famiglia) che venne arrestato. Ero giovanissimo. Scrissi il pezzo che andò in prima pagina e fu pubblicata la foto di quest'avvocato in manette e i rapporti tra la mia famiglia e la sua si guastarono per sempre. Tra l'altro in seguito venne assolto. Lì, a 21 anni, ebbi la misura di come uno debba essere giornalista e avere coraggio".

Occuparti di questi temi, negli anni, ti ha permesso di mettere insieme nomi, fatti. Hai acquisito un bagaglio conoscitivo molto importante che – attraverso un lavoro di ricerca impegnativo  – ti ha portato a realizzare molte pubblicazioni. Come nascono i tuoi libri? Tra tutti, ce n'è uno a cui sei particolarmente affezionato?

"Sono affezionato a due libri. Il primo è «Malandrini», scritto in un periodo forzato di riposo in seguito ad un'operazione. Ci tengo a ricordarlo perché è un libro che scrissi rileggendo molte cose di Luigi Malafarina. Era come se fossi tornato indietro e avessi sviluppato molte cose che avevo letto da bambino. L'altro è «Stragi, delitti e misteri» perché è il libro che svela, nell'ultimo capitolo, la vera storia che esiste dietro la morte di Roberta Lanzino, una ragazza violentata e brutalmente uccisa a 19 anni in provincia di Cosenza,  il cui omicidio è rimasto impunito e il cui caso è stato riaperto proprio grazie al mio lavoro. Il processo è tutt'ora in corso e in quel libro c'è tutto il lavoro giornalistico che ha portato alla riapertura delle indagini. E poi è un libro che racconta tanti fatti, una serie di misteri che dimostrano come la Calabria non fosse avulsa dal contesto nazionale e dimostra come, nella stagione delle grandi stragi, noi che ci sentivamo periferici in realtà non lo eravamo affatto"

E tra tutti i fatti e le storie che hai raccontato, ce n'è qualcuno che – per tragicità, dolcezza, tristezza – ti è rimasto particolarmente impresso?

"Si, l'uccisione di una mia collega a cui ero molto legato personalmente. Venne uccisa dal suo ex fidanzato nel dicembre del 2002.  La uccise a coltellate e – quella notte – andai io a riconoscere il cadavere. Era una collega, una brava ragazza. Avevamo un rapporto personale molto forte. Questo fatto mi spinse per mesi ad inseguire quest'assassino. Ogni giorno per quasi quattro mesi scrissi pezzi, feci preparare dal fotografo le possibili trasformazioni per pubblicarle sul giornale. Questa vicenda mi colpì molto personalmente: la mattina dopo quella tragica notte, scrissi uno dei pezzi più belli della mia carriera. E poi altre storie tristi  di bambini, di cose che ho visto.  Cose brutte, spesso mi sono commosso, ho scritto piangendo. Il dolore degli altri a volte lo senti e ti resta dentro".

Porti sempre con te una piccola croce – "l'accompagnatore" -  che ti fu regalata da Natuzza Evolo. E il ricavato dei tuoi libri và proprio alla sua Fondazione. Come mai questa scelta?

"Perché penso che ci sia bisogno nella vita di pensare oltre, immaginare che esista  qualcosa di diverso e che bisogna pensare a fare del bene, ad essere buoni. E' l'unico modo per sentire davvero  il dolore degli altri . Natuzza Evolo è stata una persona che ha dato pace e serenità – seppure per un minuto – a genitori che avevano perso figli, a figli che avevano perso genitori, a persone che vivevano tragicamente la loro esistenza. Sapere che c'era Natuzza dava forza. L'ho incontrata per caso, portato lì da un amico che era già stato da lei. L'idea di incontrare una persona che pensavo potesse mettermi a nudo mi spaventava. Arrivai lì e la vidi, nella sua semplicità, una persona straordinaria nella sua assoluta umiltà. Mi regalò questa piccola croce che doveva stare sempre con me e proteggermi, ed io la porto sempre. La sua semplicità mi lasciò disarmato, mi disse che bisognava scrivere con il cuore. Ho pensato che valeva la pena testimoniare il suo messaggio"

La Chiesa dovrebbe costituire una certezza, un porto sicuro. In certi casi, però, è composta da uomini che hanno subìto una degenerazione morale. E' orfana di figure importanti e – a volte – non riconosce o incoraggia quelle che ci sono e che dovrebbero costituire dei fari. "La 'ndrangheta – hai detto – è un'organizzazione di assassini. Dovremmo batterci tutti per tenere viva la speranza di trasformare il Sud in un posto normale. A cominciare dalla Chiesa calabrese". Cos'è per te la Chiesa? Quali carenze ha?

"Quando vedo  Papa Francesco capisco quello che ha visto e cosa lo spinge a dare quei messaggi. Lui –  che ha vissuto nelle favelas di Buenos Aires – ha visto la povertà più assoluta e il degrado. La Chiesa è assistenza alla povertà, è esempio, rinuncia,umiltà, digiuno. Non è pance grasse, ori, sfarzo, macchine blu. Come Natuzza che diceva «non sono io, è la Madonna. Io sono un verme di terra».  La Chiesa è semplicità, amore, solidarietà. Non sempre è così e in Calabria raramente lo è stato. Ci sono testimonianze di uomini che hanno rischiato la loro vita – e a volte l'hanno persa – per portare avanti questo messaggio . E poi c'è una gran parte di farisei, secondo me, che la riempie. E c'è una mancanza di coraggio, è solo apparenza. I mafiosi vanno isolati perché devono sapere  che stanno violando la legge di Dio e  che la regola non è uccidere. La regola è vivere bene, rispettare gli altri, amarsi e rispettare le leggi, perché queste garantiscono tutti. La Chiesa spesso non ci aiuta. Ripeto, ci sono figure eccezionali, non necessariamente famose: preti che nei piccoli centri hanno il coraggio di prendere posizione. E poi ce ne sono tanti altri che mangiano e gozzovigliano con i potenti, non solo mafiosi, con i potenti in generale e che ricevono, come dei feudatari, in questi grandi palazzi. Io penso a Cristo, la povertà, san Francesco. Vedo gli eroi che ci sono in Africa con i bambini che muoiono di fame e vedo questi che buttano i soldi. Poi penso al Papa e capisco: lui sa, perché ha visto la povertà e il suo messaggio viene da questo"

Al centro del tuo lavoro la Calabria, terra bellissima ma piena di contraddizioni che – se sul piano dell'innovazione e dello sviluppo appare periferica – assume un ruolo centrale negli intrecci della mala vita. Sa essere madre premurosa che dà la forza di restare. E sa essere perfida matrigna  che tradisce i suoi figli e li costringe a scappare. Per te, cos'è la Calabria?

"Per me la Calabria è il posto più bello del mondo e credo che le radici non siano un limite – come a volte si dice – ma siano un grande vantaggio. Mi spaventano gli uomini che dicono «per me un posto vale l'altro». Io credo che i luoghi abbiano una loro valenza nella storia di un uomo e che lo segnino per sempre. Il profumo del sugo che faceva tua nonna; il vento che hai imparato a conoscere ogni aprile, quando cambiavano le stagioni; la tristezza e la bellezza al tempo stesso  del mare pieno di lampare a settembre, non ha eguali. Il tuo cielo non è lo stesso cielo. Puoi stare nei posti più belli del mondo, quello non è il tuo cielo. Il tuo cielo è a casa tua. E' una terra che ha sofferto molto. In  tutta la letteratura calabrese c'è il messaggio univoco che viene da tutti quelli che hanno scritto: c'è il dolore dell'emigrazione. Sono andate via intere generazioni dalla Calabria e anche oggi vanno via. La Calabria è una terra con un grande dolore. Una terra segnata dalla violenza. Spesso ad essere visti come  eroi nei paesi, nelle contrade erano i violenti, i più forti perché esercitavano – rispetto ad uno Stato assente e non credibile – un potere che aveva un fascino e attraeva soprattutto i giovani. L'immagine che ho della Calabria è quella di una madre, sempre benigna. Certo, tante volte mi arrabbio per quello che vedo e sono amareggiato per come siamo cresciuti: con giornali pieni di fotografie di gente coperta da lenzuoli. Penso «ma è normale vedere a dieci anni, sul giornale che tuo padre porta, lenzuoli che coprono cadaveri? o svegliarti la notte perché hanno messo una bomba?». Vedere che le cose non funzionano, non è bello. Però, comunque sia, in qualunque posto del mondo, qualsiasi calabrese conserva nel cuore il suo cielo, il suo mare, il suo vento. E quando và via, pur stando bene, c'è sempre quell'attimo in cui col pensiero ritorna alle sue radici. E a volte non tornano per non provare dolore, perché hanno perso i genitori e venduto le case e in quel posto non ritrovano più il luogo in cui sono cresciuti. Come fai a tornare a casa tua, se non c'è più casa tua?"

E  poi ci sono i calabresi. "Bisogna – diceva Corrado Alvaro – mantenere la schiena dritta, il coraggio, la dignità, l'orgoglio e la forza che noi calabresi abbiamo nel dna". Siamo un popolo forte, capace di rimettersi in piedi dopo terribili cadute. Lo sappiamo fare. Abbiamo la costanza e la tenacia per farlo. Ma – chiedo a te – ne abbiamo la volontà? In base alla tua esperienza, c'è davvero la voglia di un riscatto?

"Io penso di si. C'è una classe di persone in grado di attuare il cambiamento: c'è più coraggio e c'è più cultura. Il mondo è cambiato. C'è una maggiore coscienza delle cose, dei fatti, delle difficoltà. Ci sono tanti giornalisti, tante persone che pensano, che scrivono. E c'è una classe intellettuale più colta rispetto al passato. C'è la possibilità che le cose cambino. E quando qualcuno dei nostri và fuori e riesce, con orgoglio quando può aiuta. E' una visione romantica, ma la penso così. Leonida Repaci, in questo senso, ha compiuto una vendetta culturale: tutte le persone che, per il suo ruolo, conosceva  le portava d'estate a casa sua, a Palmi, in una bellissima casa in campagna. Era stato costretto a partire, aveva dovuto lasciare la sua terra e si vendicava portando il mondo qui, a casa sua".

La situazione certamente non è facile. Specialmente per le giovani generazioni. Ci sono ragazzi che – con molte difficoltà – decidono di restare in Calabria. Non per le comodità date dalla famiglia, ma per un amore nei confronti di una terra che, nonostante tutto, merita di crescere.  Poi ci sono ragazzi che restano per vivere di  scorciatoie, per ribellarsi – nel peggiore dei modi – a questo malessere generale. Cosa pensi dei giovani calabresi? qual è, secondo te, la parte che prevale?

"Certo, i costumi inducono alla ricerca di scorciatoie. Però quelli che restano, in maggioranza, sono ragazzi che ci credono. C'è una volontà di cambiamento nei nostri ragazzi e sono svegli, intelligenti. La Calabria è una terra piena di talenti. La sofferenza invece di mortificarli li ha esaltati.  Purtroppo si scontrano con una realtà fatta di sottili menzogne e di scorciatoie  ma questo può spingerli – e li spinge -  a lottare ancora di più. Rispetto al passato sono ottimista, sembra che le cose siano cambiate. C'è una classe giovanile sicuramente più forte e determinata".

In conclusione: resto in Calabria. Perché?

"Perché questo è il mio sole. Questo è il mio cielo. E questo è il mio mare"