Storie di ordinaria lupara, Giuseppe Valarioti 32 anni dopo

valarioti - di Alessia Candito - "Aiuto compagni mi spararu". È la notte fra il 10 e l'11 giugno 1980. Giuseppe Valarioti e i compagni del Partito Comunista di Rosarno stanno festeggiando una storica vittoria elettorale in un ristorante della zona. I caroselli di bandiere rosse nelle strade del quartiere Corea – il rione popolare di Valarioti, ma anche feudo storico della cosca Pesce – sono finiti da poche ore. I militanti possono tirare il fiato. Il lavoro di tanti mesi, la linea intransigente mantenuta nonostante minacce e intimidazioni, lo scontro durissimo con i poteri forti del paese e della provincia - che nella Piana di Gioia Tauro significano ndrangheta e si chiamano cosche Pesce e Piromalli - ha pagato. La gente decide di credere in quel ragazzo di trent'anni, quel maestro innamorato dell'archeologia e convinto che l'impegno politico sia prerogativa fondamentale dell'uomo di cultura. Lo ha visto combattere e ha deciso di stare con lui e con il partito che rappresenta, nonostante le ndrine mettano tutto il loro peso su quelle elezioni dell'estate dell'80. E le ndrine perdono. Uno smacco che decidono di far pagare a quel dirigente politico, che da dietro i suoi occhiali quadrati non aveva avuto paura né remore a contrastarle facendo nomi e cognomi. In piazza come in consiglio comunale. Lo fermano con l'unico linguaggio che conoscono: due colpi di lupara. Il primo a soccorrere Valarioti è Peppino Lavorato, con lui dirigente di quel Pci che voleva cambiare Rosarno, poi parlamentare e storico sindaco del paese. "Quando Peppe Valarioti è stato ammazzato – ricorda ancora con voce rotta dall'età e dal ricordo Lavorato - era nel pieno della sua maturazione politica ed esprimeva quell'energia intellettuale e quella combattività che erano allora, e sarebbero necessarie oggi a Rosarno, alla Calabria, all'Italia per sconfiggere la ndrangheta e per costruire condizioni di vita dignitose per i giovani". E i giovani sono, in quella Rosarno degli anni '80, quelli a cui Valarioti e il suo partito si rivolgono per cambiare il paese e la Calabria. Per creare un'alternativa alla ndrangheta, che proprio in quegli anni fa il salto di qualità. Abbandonati sequestri e traffici di piccolo cabotaggio, le ndrine – a braccetto con la massoneria- entravano nei salotti buoni dalla porta principale, iniziavano a sedersi al tavolo con più o meno noti esponenti della classe dirigente locale e nazionale, con l'arroganza di chi ha fiumi di liquidità da mettere sul piatto e interi territori sotto il proprio tallone. Le ndrine, in quegli anni, entrano dietro cortese invito nella stanza dei bottoni. Proprio mentre la Piana e il reggino, venivano inondate dai miliardi del pacchetto Colombo e degli investimenti per il Quinto Polo Siderurgico, una delle tante cattedrali nel deserto destinate a celebrare la quotidiana liturgia della miseria del Sud.
"Per capire l'omicidio Valarioti – spiega Lavorato – bisogna comprendere il contesto politico e sociale in cui è maturato. Il governo in quegli anni si era impegnato a costruire 15 mila posti di lavoro in Calabria, di cui 7500 solo nella Piana di Gioia Tauro. La battaglia perché il governo mantenesse i propri impegni è durata per tutta la seconda metà degli anni '70 ed ha visto in tutta la Piana giovani, donne, lavoratori, disoccupati manifestare insieme". Ma mentre con gli investimenti del governo la ndrangheta cresce economicamente e militarmente, giovani e disoccupati continuano a non avere risposte. È da qui che nasce la decisione del Pci di allora di unire la battaglia per il lavoro a quella contro la ndrangheta". Sono anche gli anni in cui il movimento contadino, erede delle grandi lotte per l'occupazione delle terre degli anni '50, passa all'organizzazione diretta e creava cooperative, centri di autorganizzazione ma anche di interessi economici su cui la criminalità concentrava i suoi appetiti. Alle ndrine fanno gola i sussidi europei e nazionali garantiti ai produttori (Aima). Anche quelli della cooperativa Rinascita, collaterale al Pci. Forse perché marci o solo perché terrorizzati, forse corrotti o semplicemente ignoranti, alcuni dirigenti non avevano arginato a sufficienza i tentativi di inquinamento portati avanti dalle cosche rosarnesi. Un errore che quel partito comunista punisce con severità: quei dirigenti vengono prima sospesi poi espulsi, la cooperativa passata al setaccio e rifondata. Misure apprezzate e sostenute dallo zoccolo duro del partito ma che aumentano anche l'astio nei confronti di un gruppo dirigente che dimostra, giorno dopo giorno, di non essere in vendita. E di non avere alcuna remora a colpire tanto all'interno, quanto all'esterno. Le battaglie contro le concessioni edilizie elargite senza criterio se non i desiderata dei potenti, gli scontri in consiglio comunale, l'opposizione dura al Psi all'epoca a capo dell'amministrazione e additato come partito di riferimento delle cosche, il lavoro fra disoccupati, braccianti e contadini spinti a pretendere un salario dignitoso dai padroni: l'intero percorso politico del Partito comunista rosarnese mette il suo gruppo dirigente in rotta di collisione con i potentati locali. Una lotta che fa paura alle ndrine. All'epoca, racconta ancora Lavorato ,"il padre dell'allora segretario della sezione di Gioia Tauro venne chiamato dal capomafia del paese che gli disse che questo gridare dei comunisti contro la mafia non gli faceva piacere, lo disturbava". Frizioni esplose nella campagna elettorale del 1980. Mesi durissimi, durante i quali il partito e i suoi militanti sono oggetto di minacce e intimidazioni continue: i manifesti vengono scollati e riattaccati al rovescio, la sede del partito devastata, l'auto di Lavorato data alle fiamme. Le ndrine hanno subito un duro colpo e attaccano in modo rabbioso. Il 4 gennaio del '79 , la sentenza del processone De Stefano+59 ha condannato i boss della ndrangheta sull'asse Reggio Calabria- Gioia Tauro. I Pesce, padroni di Rosarno, ne escono con le ossa rotte. E con le elezioni dell'80 vogliono recuperare. Anche Giuseppe Pesce, il patriarca della 'ndrina - grazie ad un permesso per la malattia della madre prolungato ad arte per alcune settimane - torna a Rosarno a controllare da vicino la campagna elettorale. E contro di lui, i suoi sodali, la sua tirannia si dirigevano gli strali di Peppino Valarioti e del Pci rosarnese. Obiettivo, provare a spezzare il legame fra i boss della ndrangheta e i giovani del paese. "Nel corso di quella campagna elettorale, nei comizi nei quartieri popolari, spiegavamo ai giovani e ai loro genitori come non ci fosse battaglia per il lavoro possibile senza combattere la ndrangheta. Mettevamo in guardia le famiglie 'state attenti, perché se viene sconfitto questo partito che lotta per il lavoro e vincono le organizzazioni criminali, i vostri figli corrono il pericolo di essere irretiti e portati allo sbaraglio perché l'unico destino possibile nelle mani della ndrangheta è la galera o la morte violenta'". Valarioti e il Pci scelgono invece di sfidare il dominio e l'autorità del clan in modo palese: il 25 maggio nel giorno del funerale della madre del patriarca, il Pci organizza un comizio. Quel giorno Peppino Valarioti pronuncia parole di sfida che i vecchi militanti del partito ancora ricordano e scandiscono a memoria: "Se pensano di intimidirci non ci riusciranno, i comunisti non si piegheranno". Per piegare Peppino Valarioti, le cosche hanno dovuto ammazzarlo. "La ndrangheta ha come obiettivo le ricchezze economiche e il potere, ma sa che lo strumento per raggiungerli è la paura che riesce ad incutere tra la popolazione- spiega Lavorato - perché sa che attraverso il terrore che riesce a seminare, la gente si piega e la mafia comanda. Se invece vince il partito che non si piega, che combatte apertamente contro la ndrangheta, per le ndrine è una sconfitta inaccettabile. Per terrorizzare i comunisti, per terrorizzare la popolazione, per imporre il suo dominio: Peppe Valarioti venne ammazzato per questo". Una verità storica, ma non ancora giudiziaria. Alla morte del segretario rosarnese del Pci seguiranno undici anni di indagini e processi che si concluderanno senza alcun colpevole. Il primo procedimento, istruito dal pm Tuccio contro Giuseppe Pesce, accusato di essere il mandante dell'omicidio del dirigente del Pci, naufragherà in aula. "Il primo grado si è chiuso con un nulla di fatto, Giuseppe Pesce che era stato rinviato a giudizio è stato assolto per insufficienza di prove, a causa della ritrattazione di un carabiniere- spiega Alessio Magro, giovane ricercatore calabrese che insieme al collega Danilo Chirico, al Caso Valarioti ha dedicato un libro - A riaprire la vicenda ci ha pensato, alla fine degli anni 80, il pentito Pino Scriva che ha raccontato già allora dell'esistenza di una sorta di cupola che governava il mandamento della Piana. Scriva spiegò che a uccidere Valarioti era stato Francesco Dominello su ordine dei Pesce, ma anche del boss Piromalli. Dichiarazioni che trovano piena conferma nelle risultanze investigative degli ultimi anni che hanno confermato l'esistenza di una ndrangheta unitaria, ma all'epoca non vennero prese sul serio. Nonostante Scriva abbia fatto condannare all'ergastolo diversi boss, su Valarioti non fu creduto". Grazie alle rivelazioni del collaboratore, emergerà il ruolo di altri uomini delle ndrine: oltre a Pesce, ci sono Giuseppe Piromalli e Sante Pisani. " Giuseppe Pesce è per sua stessa ammissione – trascriverà di suo pugno il pm del Tribunale di Palmi Salvatore Boemi, raccogliendo le dichiarazioni del pentito– il mandante del grave fatto di sangue relativo alla morte di Giuseppe Valaroti. Su questo episodio il Pesce mi riferì che Piromalli si era lamentato con lui del fatto che non soltanto Valarioti aveva partecipato a Gioia Tauro alle manifestazioni contro la mafia, ma era anche a conoscenza di loschi affari che si verificavano all'interno della cooperativa ortofrutticola di Rosarno". Le dichiarazioni del pentito vengono confermate da riscontri, il pm Boemi spinge per la riapertura del processo e chiede di stralciare il caso Valarioti. "Con il senno di poi, quello stralcio, anche nell'opinione del pm è stato un errore – commenta Magro - Il giudice istruttore ha ritenuto di non procedere, ritenendo le dichiarazioni di Scriva non sufficienti, la società civile del tempo non è stata in grado di mantenere viva l'attenzione e il caso Valarioti è stato condannato all'oblio". C'è tanta Calabria, di ieri e di oggi, nell'omicidio di Peppino Valarioti. Il suo non fu l'unico assassinio politico che le cosche portarono a termine in quel periodo: dodici giorni dopo, a Cetraro, gli uomini del boss Francesco Muto sparano a Giannino Losardo. Pochi anni prima, vengono ammazzati invece due militanti, Ciccio Vinci e Rocco Gatto. Alle ndrine il Pci di quegli anni, avanguardia del movimento antimafia che in Calabria muove i suoi primi passi -fa paura: organizza i lavoratori e gli ultimi, insegna che la casa, la scuola, un salario dignitoso sono diritti e non favori da chiedere al compare di turno e soprattutto mostra che la lotta è l'unica strada per ottenerli. Un messaggio che ieri come oggi, la ndrangheta non può far passare. Perché solo nella miseria, nel bisogno, nell'arretratezza e nella sottomissione affonda le radici del proprio consenso. "Quando scompaiono persone come Peppe Valarioti, creano vuoti che non si possono colmare", dice sommesso Lavorato, che di quel compagno e amico ammazzato dalla ndrangheta ha provato a tenere viva la memoria e il messaggio, nel ricordo ma anche nelle quotidiane battaglie "perché – sostiene – il miglior modo di ricordarlo è quello di continuare le lotte che lui aveva iniziato". Ma adesso, almeno la speranza di rendergli giustizia e dare un nome un volto a chi ha interrotto la vita e il percorso di Peppino Valarioti a soli trent'anni, ci potrebbe essere. "Alla luce dei recenti pentimenti che ci sono stati nella famiglia Pesce – afferma con sicurezza Alessio Magro - noi crediamo ci siano i margini per chiedere la riapertura del processo e delle indagini. È una cosa possibile, fattibile e doverosa. Io credo che la Calabria debba provarci, come si sta facendo in Sicilia, dove si sta facendo la battaglia per la riapertura delle indagini sull'omicidio di Pio La Torre. Adesso tocca a noi, farlo qui in Calabria".