Donna denuncia aguzzini: ancora i Cacciola. 16 arresti per droga e riduzione in schiavitù

operazionemauserdi Claudio Cordova - Per i Cacciola di Rosarno, evidentemente, la riduzione in schiavitù di giovani donne era il pane quotidiano. A distanza di poche ore dalla sentenza di condanna per i familiari della giovane testimone di giustizia, Maria Concetta Cacciola, i Carabinieri hanno arrestato sedici persone con l'accusa di traffico di droga, ma anche di riduzione in schiavitù, nell'ambito dell'operazione denominata "Mauser".

La protagonista, questa volta, è Giuseppina Multari.

L'attività investigativa - avviata nell'ottobre del 2006 dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Roberto Di Palma e proseguita, più recentemente, dal sostituto Alessandra Cerreti – prende le mosse proprio dalle dichiarazioni rese dalla giovane Multari- oggi testimone di giustizia destinataria di misure di protezione - la quale, dopo il suicidio del marito Antonio Cacciola, avvenuto il 13 novembre 2005, fornirà informazioni su una serie di attività criminali riconducibili a soggetti facenti capo alle famiglie Cacciola e Curmace.

La vicenda, però, non è priva di connotati tragici e inquietanti, quasi al pari dei fatti che porteranno alla morte di Cetta Cacciola. In particolare, il 30 settembre 2006, il padre della collaboratrice di giustizia, Francesco Multari, consegnerà una lettera fattagli pervenire dalla figlia Giuseppina, in cui la stessa rappresenterà la difficile situazione in cui era stata costretta a vivere dopo la morte del marito, Antonio Cacciola, presso l'edificio in cui dimorava la famiglia del marito. In sintesi, sono state documentate una serie di circostanze, quali la costrizione a casa Cacciola imposta alla Multari; le difficoltà poste alla donna nei rapporti con la famiglia di origine; le continue violenze psicologiche; la minaccia di occuparsi delle bambine in via esclusiva, desumibile dagli atteggiamenti dei Cacciola; le mancate cure prestate alla Multari; le minacce di morte esplicite rivolte alla collaboratrice; il precario stato di salute generale della Multari allorquando verrà prelevata in data 02.10.2006 dalle forze di polizia, che si presentava fortemente svigorita nel fisico e terrificata nell'animo. Tutti elementi che concorrono nell'affermare che Giuseppina Multari era sottoposta a pesanti vessazioni e privazioni sia fisiche che di sostegno morale.

Come quella di Maria Concetta Cacciola, anche quella di Giuseppina Multari sarà una vita di angherie e soprusi. La donna, però, riuscirà a mettersi in contatto con gli inquirenti e dall'ottobre 2006, inizierà a rendere dichiarazioni su attività illecite commesse dai parenti del marito, consentendo il rinvenimento di numerose armi e munizioni anche da guerra (sia abilmente occultati, che nella pronta disponibilità dei Cacciola), denaro, sostanza da taglio e di un bunker destinato alla latitanza di Gregorio Bellocco e fornirà una serie di elementi che permettevano di avviare una intensa attività investigativa, soprattutto estrinsecatasi in attività di intercettazione, su membri della famiglia Cacciola e su soggetti ad essi collegati.

Una scelta che la donna maturerà al termine di un periodo di violenze fisiche e psicologiche che l'avevano spinta, l'11 febbraio 2006, a tentare il suicidio. La donna, infatti, cercherà di togliersi la vita gettandosi nelle gelide acque di San Ferdinando, ma verrà soccorsa dal fratello Angelo che, nel periodo successivo, scomparirà nel nulla.

Sulla sua fine aleggia ancora un'ombra di inquietante mistero.

Nella missiva scritta dalla giovane e che il padre consegnerà ai Carabinieri, in particolare, si riferirà di continue limitazioni alla propria libertà di autodeterminarsi e di continue minacce subite ad opera del suocero Domenico Cacciola e del cognato Gregorio Cacciola. Giuseppina Multari avrebbe subito costanti maltrattamenti già dal marito e, in seguito al "suicidio" dello stesso, dal suocero che la costringeva a rispettare le sue imposizioni vessandola continuamente e attribuendole la colpa del suicidio dell'uomo, gravato da problemi di alcolismo e – secondo quanto si apprende – anche di uso di droga. Maltrattamenti e privazione della libertà che sarebbe stato riscontrato indirettamente anche dalle conversazioni intercettate, poiché si registrava il timore della famiglia Multari per le probabili ritorsioni dei Cacciola anche nei confronti di soggetti a loro vicini. Il timore di una ritorsione anche nei confronti del fratello della Multari, residente in Germania, infatti era così forte che il padre gli consigliava di tutelarsi con un'arma e di attivarsi per ostacolare eventuali azioni della famiglia Cacciola nei suoi confronti. I Multari temevano anche gli appartenenti alla famiglia Curmace (residenti in Germania) e che questi potessero rivelare ai Cacciola il luogo dove abitava Multari Antonio, poiché alleati dei Cacciola.

Come già testimoniato dalle indagini sulla morte di Maria Concetta, i Cacciola avranno modo di mostrare tutta la propria ferocia: l'accanimento di tutta la famiglia Cacciola diventerà palese, anche, in alcuni messaggi e si manifesterà inoltre nel tentativo che questi facevano di prendere contatto con la Multari per scoprire la località dove era stata trasferita, poiché sottoposta a protezione: Michele Cacciola, padre di Giuseppe (arrestato) e della defunta collaboratrice di giustizia Maria Concetta e cugino di Domenico Cacciola, era riuscito a individuare una delle figlie di Giuseppina Multari, che in quel periodo era ricoverata, a causa di una patologia, presso il nosocomio "Gaslini" di Genova. Dopo avere ricevuto la notizia dell'individuazione della minore, i membri della famiglia Cacciola si attiveranno e Francesco Cacciola, raggiungerà l'ospedale, mentre il resto della famiglia cercherà di averne conferma chiamando l'ospedale e altri nosocomi per individuare altri appuntamenti eventualmente presi dalla Multari.

All'esito di un'ulteriore attività istruttoria sviluppata nel 2013, la Dda sentirà nuovamente la collaboratrice di giustizia e i genitori della donna. Tale attività ha consentito di aggravare le responsabilità penali dei Cacciola e di ampliare il numero di coloro che hanno concorso nel reato: "Si tratta di un'interpretazione innovativa del reato" spiega il procuratore capo, Federico Cafiero de Raho.

L'attività di indagine sopravvenuta, infatti, ha consentito di riqualificare le condotte antigiuridiche contestate ai Cacciola nel reato di "riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù", perché, in concorso tra loro, mediante violenza e minacce, avrebbero esercitato sulla donna, poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, riducendola in uno stato di soggezione continuativa. In particolare l'avrebbero minacciata di morte, attribuendole la responsabilità del suicidio del marito, l'avrebbero sottoposta ad una serie continua di vessazioni morali, impedendole una normale vita di relazione, impedendole di uscire liberamente da casa senza la loro presenza, impedendole di accompagnare a scuola le proprie figlie minori, impedendole di scegliere il medico curante, impedendole di trasferirsi presso l'abitazione dei propri genitori dopo il tentativo di suicidio, impedendole di esercitare poteri gestori sulle figlie minori, che sarebbero state prelevate contro la volontà della testimone di giustizia. Alla giovane donna sarebbe stato impedito di uscire da casa, se non accompagnata da uno dei membri femminili della famiglia, ossia, la suocera Teresa D'Agostino e la cognata Maria Cacciola. Persino a piangere sulla tomba del marito (nei confronti del quale Giuseppina Multari ha ammesso essere stata molto innamorata) le era stato vietato, se non accompagnata dalle sue solerti carceriere. Le era stato impedito di accompagnare le figliolette a scuola e di scegliere il medico da cui farsi curare. Persino i contatti con la madre erano controllati dalla famiglia Cacciola, che ne determinava rigorosamente il "tempo massimo", coincidente con la chiusura del portone d'ingresso per la notte.

Una donna totalmente annientata nei suoi diritti di essere umano. Ed è amaro il commento del comandante dei Carabinieri, il Colonnello Lorenzo Falferi: "Siamo di fronte a un quadro delinquenziale più ampio" dice. Ancor più duro è il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho: "Per quelle famiglie la donna è schiava, come nella preistoria. La cultura è talmente lontana da quelle persone da annullare i sentimenti fondamentali della nostra vita, come appunto la famiglia. E' necessario allora recuperare la cultura, che è qualcosa che dovrebbe essere dentro l'essere umano".

Ma le dichiarazioni della giovane Multari, oltre ad aprire scenari inquietanti sotto il profilo umano e antropologico, hanno svelato anche un traffico di droga gestito dalle famiglie destinatarie dell'ordinanza di custodia cautelare. Il centro di "interessi" principale del sodalizio criminale va individuato certamente a Rosarno - luogo di consumazione del reato associativo - in quanto residenza di Giovanbattista Cacciola, principale protagonista dell'intera vicenda criminale, promotore ed organizzatore dell'associazione e soprattutto poiché luogo in cui veniva organizzato il traffico - unitamente a Mercurio Curmace e Girolama Curmace - e smistato lo stupefacente proveniente dal nord Europa per la successiva distribuzione. L'attività investigativa ha portato alla luce importanti elementi a carico di quest'ultima donna alias "'Mommina" residente in Germania, dove gestiva una pizzeria (la Locanda di Mina) e che viaggiava con sistematica frequenza tra la Calabria e la Germania avvalendosi, per il traffico di stupefacenti, oltre che del fratello Mercurio, anche di altri membri facenti parte dell'organizzazione, tutti residenti in Germania, che collaboravano con la stessa anche nella gestione delle attività commerciali a Dusseldorf.

L'attività di indagine ha consentito di dimostrare come i promotori dell'associazione, i Cacciola, hanno gestito l'importazione di ingenti quantità di cocaina dall'estero attraverso basi logistiche in Germania ed in Francia grazie ad una efficace rete criminale, armata e ben organizzata. Le attività di intercettazioni e l'avvio della cooperazione con la polizia giudiziaria tedesca hanno permesso di comprendere che lo stupefacente veniva trasportato a Rosarno attraverso un consolidato sistema che veniva ripetuto con cadenza mensile e che prevedeva l'acquisto di sostanza stupefacente dall'Olanda, il successivo trasporto attraverso auto prese a noleggio, prima presso la base logistica in Germania e poi a Rosarno. Una volta capito il modus operandi è stato possibile effettuare attività di riscontro che hanno avuto esito positivo: a Rosarno sarebbero arrivati mediamente 15 o 20 chili di droga al mese.

Il 13.08.2008, infatti, in Rosarno verranno sottoposti a perquisizione Mercurio Curmace e la sorella Girolama, alla giuda di una Seat Leon noleggiata in Germania, al cui interno venivano rinvenuti, ben occultati all'interno di una cavità sottostante il paraurti posteriore, quattordici panetti dal peso complessivo di circa 15,7 kg., confezionati con cellophane e nastro isolante di colore nero, con all'interno cocaina. Il 17.09.2008, ancora, veniva rinvenuto e sequestrato in Francia un nuovo carico di cocaina (circa 5 kg), ad opera della Polizia Francese nei confronti di due indagati. L'attività di indagine dunque avrebbe fatto emergere che la famiglia Cacciola gestirebbe in qualità di organizzatori e finanziatori il traffico di cocaina, che attraverso membri dei Curmace – De Maria (base logistica) in Germania, acquistano mediante auto prese a noleggio lo stupefacente dal fornitore olandese Marc Feren Claude Biart, lo importano a Rosarno, che passa attraverso l'azienda denominata "Rosarnese" riconducibile ai Cacciola, per poi finire nel circuito della distribuzione.

Gli indagati, per le loro comunicazioni, si avvalevano anche di impianti di telefonia pubblica sempre diversi o di schede GSM intestate a soggetti terzi non direttamente riferibili agli utilizzatori. Si è rilevato, inoltre, come le comunicazioni telefoniche avvenissero sempre in modo criptico ed utilizzando metafore difficilmente interpretabili se non attraverso alcuni riscontri oggettivi. Il contatto tra gli indagati, e comunque con i soggetti d'interesse coinvolti in qualche modo nei loro traffici, avveniva attraverso l'utilizzo di nomi di comodo e noti ad ognuno di loro, sia per indicarsi vicendevolmente, o per indicare terzi soggetti non partecipanti alla conversazione, o anche per segnalare all'interlocutore località prefissate per gli incontri, o tragitti da compiere.