13 fermi per narcotraffico: chiuse le "porte" del porto di Gioia Tauro

operazionepuertoliberadodi Claudio Cordova - Erano loro la porta d'ingresso del porto di Gioia Tauro. Una vera e propria società di servizi per il narcotraffico che passa, inevitabilmente, da uno degli scali più importanti del Mediterraneo. La famiglia Brandimarte, ritenuta dagli inquirenti un avamposto delle cosche della Piana di Gioia Tauro, avrebbe dunque controllato un lucroso traffico internazionale di sostanze stupefacenti in contatto con il Sud America. Sono tredici le persone fermate dalla Guardia di Finanza su mandato della Dda di Reggio Calabria le indagini, partite dal 2011, hanno permesso di sequestrare oltre quattro tonnellate di cocaina purissima che nel mercato avrebbe potuto fruttare alle cosche di 'ndrangheta introiti per un valore di circa 800mln di euro.

Gli accertamenti coordinati dal sostituto procuratore della Dda, Alessandra Cerreti, hanno un formidabile input nel marzo 2011, allorquando verrà sequestrata una partita di cocaina giunta occultata all'interno di un container presso lo scalo gioiese. Pochi mesi dopo, peraltro, arriva un ulteriore passaggio importantissimo: è ottobre quando all'ingresso del porto viene arrestato Vincenzo Trimarchi, detto "Il Merlo", dirigente quadro della MCT, la società di gestione della banchina merci del porto, mentre tentava di allontanarsi trasportando a bordo di un furgone sedici borsoni contenenti 560kg di cocaina purissima.

Stando alle indagini della Dda, l'organizzazione criminale era capeggiata da Giuseppe Brandimarte, ex dipendente della Società di gestione, il quale, profondo conoscitore delle dinamiche operative all'interno dello scalo, avrebbe potuto contare sull'assoluta e incondizionata collaborazione di diversi dipendenti infedeli. Oltre alle cifre importanti del sequestro, il dato più significativo dell'inchiesta, denominata "Puerto Liberado", è l'individuazione di una vera e propria squadra di dipendenti dello scalo, che avrebbe fornito supporto all'organizzazione criminale, dietro ricavo economico. Cinque delle 13 persone fermate, infatti, sono lavoratori del porto: gli inquirenti, dunque, hanno la possibilità di "entrare" all'interno del porto e sdradicare alcuni fondamentali punti di riferimento per il traffico di droga. L'organizzazione, infatti, sarebbe stata capace addirittura di pilotare i turni di lavoro, in modo tale da avere persone fidate nel momento in cui i carichi di droga sarebbero giunti nel porto di Gioia Tauro.

Membro di spicco dell'organizzazione, peraltro, è risultato essere Alfondo Brandimarte, fratello di Giuseppe e suo successore, dopo che questi verrà arrestato per i fatti riguardanti la famosa faida tra i Brandimarte e i Priolo di Gioia Tauro. Sull'attività nel porto di Gioia Tauro, peraltro, riferiranno anche i due collaboratori di giustizia, Ieranò e Belnome, che apriranno scenari importanti al pm Cerreti e agli uomini della Guardia di Finanza.

Un'organizzazione raffinata nei metodi che, dopo i vari sequestri, avrà la capacità di mutare le proprie metodologie, garantendosi efficienza operativa e fiducia da parte delle cosche di 'ndrangheta egemoni sullo scalo: "Era un'attività trasversale che metteva d'accordo tutte le cosche". In alcuni casi, verrà verificato come i container fossero contenuti all'interno di altri container, con una specie di effetto matrioska: "Dei veri e propri cavalli di Troia" dicono gli investigatori. Ciascuno dei sodali, si doterà quindi di un nome di copertura, arrivando a intestare i cellulari a personaggi dei cartoni animati, come "Puffetta". Verrà peraltro intercettato un complesso codice alfanumerico con il quale venivano forniti i dati essenziali da comunicare al personale portuale infedele per individuare la nave ed il container contenente lo stupefacente. Dalle attività tecniche messe in atto, emergerà come il compenso all'organizzazione fosse pagato con una parte del carico importato corrispondente a un quantitativo variabile, in relazione al peso specifico criminale della cosca importatrice, tra il 10 e il 30% del carico.

Gli inquirenti sottolineano l'assoluta capacità dell'organizzazione, capace di rapportarsi da pari a pari con i Narcos sudamericani, ma anche attiva nell'eludere le investigazioni, sia tramite una serie di "soffiate" cui ancora gli investigatori non sono venuti a capo, sia tramite sofisticati sistemi di videosorveglianza delle diverse abitazioni in cui dimoravano, cambiando spessissimo luogo di residenza. A casa di Alfonso Brandimarte, uno dei soggetti destinatari del fermo, verrà infatti rinvenuta una botola con un percorso che avrebbe dovuto portarlo fuori, al sicuro.

Tra i tredici destinatari del provvedimento di fermo, tre di essi, Antonio Femia, Antonio Calabrò e Vincenzo Crisafi, risultano allo stato irreperibili. L'indagine, comunque, è molto più ampia e vanterebbe oltre sessanta indagati.