Le sfide all'intelligenza artificiale fatte (anche) da chi non te l'aspetti

collagecameradicommerciodi Mario Meliadò - Un'intensa giornata, quella di ieri del Forum "Golfieri" dell'innovazione.

Alla Camera di commercio di Reggio Calabria si sono susseguiti relatori che hanno scandagliato i più diversi profili dello "stato dell'arte" sull'innovazione, da Luca Ruggeri della Task Force dell'Agid (Agenzia per l'Italia Digitale) a Edoardo Fleischner dell'Università degli Studi di Milano (nella sezione dedicata a "Le sfide dell'intelligenza artificiale: tica, tecnologie e competenze"), da Pier Luigi Dal Pino della Microsoft We – Italia, Austria al presidente di Confindustria Reggio Calabria Giuseppe Nucera.

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Etica, tecnologie e competenze la 'triade' tematica collegata al cuore del dibattito in seno all'Ente camerale, l'intelligenza artificiale.

Tra i relatori, pregnante in questo senso il frate francescano Paolo Benanti della Pontificia Università Gregoriana di Roma (L'etica delle tecnologie e human adaptation).

La human adaptation, padre Benanti, è un tema fascinosissimo a fronte di tecnologie spesso impattanti e invasive, ma che comunque scandiscono ogni nostra giornata, no?

«L'uomo da sempre ha vissuto in relazione alle tecnologie. Quando, 70mila anni fa, ci siamo spostati dal Madagascar in tutto il mondo, dicono gli antropologi, abbiamo fatto una cosa unica rispetto a tutte le altre specie. Se un mammut ha dovuto aspettare che gli nascesse un figlio senza il folto pelo, per poter abitare le terre del Sud come l'India e come l'Africa, che nascesse l'elefante, noi invece ci siamo vestiti della pelliccia del mammut. Quindi adattarci e adattare il mondo tramite la tecnologia non è una novità di oggi. Quello che è nuovo è che queste macchine non sono utensili, come un martello o un chiodo, che quindi dipendono dalla mia mano; non sono neanche apparati industriali, che fanno quanto son stati progettati per fare in maniera molto invasiva, ma sono macchine "intelligenti", nel senso che vengono addestrate prima e poi noi abbiamo la certezza del loro operato».

A fronte dell'intelligenza artificiale delle macchine noi però abbiamo anche maturato una "stupidità" artificiale dell'utente, no?

«Questo, in realtà, è tutto da dimostrare. Ciò che è possibile fare con queste nuove macchine è raggiungere livelli d'efficacia e d'efficienza prima impensabili. Allora, si deve parlare di stupidità?, di una nuova stagione dell'essere umano? Di sicuro, se l'uomo è al centro, non dobbiamo mai permettere che queste macchine minaccino l'uomo».

Ma proprio in questi giorni, a proposito di "nuova frontiera", s'è registrata la provocazione in base alla quale, invece d'attendere il nuovo modello di pc o di telefonino, più che altro è "uscito" il nuovo modello di uomo...

«Beh, non è la prima volta che accade... Quando, nel XV secolo, la lente convessa ha permesso a Galileo di sviluppare il telescopio, e poi più avanti il microscopio, è cambiato il mondo per capire il mondo e noi stessi. E allora siamo in una stagione analoga, un nuovo strumento che possiamo chiamare "macroscopio", che ci consente di studiare l'infinitamente complesso, sta cambiando ciò che capiamo del mondo e di noi stessi: le certezze che avevamo non sembrano poi così certe. Questa è la sfida».

E riguardo ai social media, come educare i più giovani a un uso responsabile dei social?

«Le tecnologie digitali potremmo pensare non abbiano effetti reali: invece gli algoritmi poi sappiamo che hanno effetti molto reali, basti pensare al cyberbullismo. Allora c'è bisogno di una media education, così come abbiamo svolto un'educazione alla lettura e ad altre forme d'interazione sociale... I ragazzi vanno educati, con tecniche e capacità nuove rispetto al passato. E poi, abbiamo macchine che producono risultati che sembrano 'intelligenti': lo sono, o sono frutto del caso? Gli scienziati non sono ancòra d'accordo. Ma di certo, se queste macchine entrano nelle tasche di ciascuno di noi, beh, allora dobbiamo decidere come usarle: è un problema etico e politico».

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Ancòra, a Giulio Xhaet, digital strategist, consulente e formatore della Newton Management Innovation (Le competenze per il digitale), abbiam chiesto anche del quadro in cui ci troviamo.

L'innovazione, a Sud, globalmente non viene declinata granché: è solo questione di risorse?, servono dei 'modelli' da introiettare?

«Sono convinto che le capacità, le competenze native delle persone che vivono nel Mezzogiorno esistono, e sono importanti per il digitale. Sempre più, il nuovo modello delle competenze necessarie è infatti un modello 'contaminato', che cioè mette insieme umanistica e competenze scientifiche, come oggi prevede il modello 'Stim', cioè Scienze, tecnologie, ingegneria, matematica e arti liberali, cioè non solo l'artista ma chi conosce di arte, umanistica, psicologia, filosofia, conoscenze umanistiche. Da questo punto di vista, gli uomini del Sud hanno questa caratteristica: e le competenze che ha un italiano medio sono molto ambite all'estero, nella capacità di unire scienza e creatività, o comunque àmbito umanistico. Non è un caso che nei luoghi del mondo oggi considerati i più innovativi, se si fa un corso di formazione si opera sempre un lungo approfondimento sul luogo a loro dire più innovativo di tutti i tempi, ossia l'Italia, in particolare il Rinascimento e la Corte medicèa».

'Colpa' del panculturalismo che torna a riaffacciarsi, come nelle 'universitas' di un tempo?

«Sì, perché il mondo di oggi è sempre più globalizzato, sempre più interconnesso e quindi sempre più complesso. Per avere una capacità di visione e d'analisi critica, capacità d'avere creatività, empatia è importante non limitarsi a un campo esclusivamente. Leonardo è la massima espressione d'artista e ingegnere insieme; Mark Zuckerberg, il "papà" di Facebook, ottimo informatico, pochi sanno che prima della fama 'social' aveva vinto tanti premi di psicologia e sua madre era psichiatra. Reid Hoffman, il fondatore del celebre network professionale LinkedIn, non è un informatico, uno 'smanettone', ma un laureato in filosofia che ha creato LinkedIn analizzando le teorie sociologiche degli anni Sessanta e Settanta».

Certo, tanti confidavano in uno sviluppo impetuoso del digitale al Sud, vista la relativa maggior facilità d'implementare le infrastrutture immateriali. Invece, s'è visto che arretratezza chiama altra arretratezza, anche nella new economy... Perché?

«Questo è un sistema che deve funzionare da tanti punti di vista. Se in una banca che vuol fare innovazione ci sono talenti e capacità latenti ma, banalmente, queste persone hanno delle devices di 10 anni fa, che si fa fatica a mandare in Rete, allora tutto s'affossa. Se metti quattro persone mediamente capaci in un luogo che offre loro la possibilità di esprimere al massimo il loro potenziale, fai sicuramente meglio che mettendo quattro geni all'interno di un sistema lento, farraginoso, che non ti spinge e non t'aiuta. Quindi: i talenti li abbiamo, dobbiamo creare un'infrastruttura. Tradotto: i soldi che già ci sono dobbiamo metterli a sistema. Una società che nella Silicon Valley viene quotata un milione di dollari, qua la stimiamo 20mila euro... ».

Vuol dirci che è la catena del valore ad avere qualche problema?

«...Entrambe le cose. Senza talento, senza competenze non vai da nessuna parte; ma se il talento non lo metti a bagno in qualcosa dove possa germogliare, poi fugge da qualche altra parte o, al più, cerca capitali esteri».