Crolla il teorema-“Meta”: non esiste la super-associazione delle cosche a Reggio Calabria

destefanogiuseppe500di Claudio Cordova - Era stato il "cavallo di battaglia" del pm antimafia Giuseppe Lombardo, che, a partire dal 2010, aveva contestato, con la maxi-inchiesta "Meta" la sussistenza di una super-associazione composta dalle quattro cosche più importanti della 'ndrangheta: i De Stefano, i Condello, i Tegano e i Libri. Le motivazioni della Corte d'Appello di Reggio Calabria smontano ora quell'assunto.

Nell'aprile 2017, infatti, i giudici di secondo grado reggini hanno sepolto sotto decine di anni di carcere i capi della 'ndrangheta: Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello "Il Supremo", Giovanni Tegano e Pasquale Libri (oggi deceduto). Dalla lettura delle motivazioni redatte dalla Corte, però, emerge come i boss siano stati condannati "solo" per il reato di associazione mafiosa e non per aver costituito quel "direttorio" che, nell'impostazione accusatoria, controllerebbe tutto a Reggio Calabria e dintorni.

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Per la Corte presieduta da Antonino Giacobello gli elementi probatori "non appaiono idonei ed univoci al fine di ritenere la sussistenza di un organismo verticistico, promosso e costituito dai vertici delle consorterie mafiose più potenti della città di Reggio Calabria, integrante una diversa associazione, dotata di autonoma esistenza [...] e collocata ad un livello gerarchicamente superiore rispetto alle storiche cosche reggine, che pur conservano la rispettiva operatività".

Restano le durissime condanne emesse. Il capo della 'ndrangheta reggina, Giuseppe De Stefano, viene condannato a 27 anni di reclusione: una condanna frutto della continuazione riconosciuta con una precedente condanna per omicidio, che, al momento, gli evita che la pena complessiva venga commutata in ergastolo. 21 anni (anche in questo caso viene riconosciuta la continuazione) per il boss Pasquale Libri, mentre per Pasquale Condello e Giovanni Tegano la Corte confermò la sentenza di primo grado di 20 anni di reclusione.

Ciò che non regge, nel teorema-Lombardo, è l'affascinante tesi delle principali famiglie di 'ndrangheta che, dopo essersi fatte la guerra con centinaia di morti dal 1985 al 1991, avrebbero siglato la pace, accordandosi per gestire gli affari. Da qui la nascita della super-associazione o il direttorio, sorto per prevenire ed evitare l'insorgere di conflitti tra cosche, che avrebbe assunto la direzione, regolamentazione e organizzazione delle attività criminali all'interno del mandamento di centro della provincia di Reggio Calabria. Per i giudici della Corte d'Appello di Reggio Calabria, però, né le risultanze di processi del passato (tra cui "Olimpia", "Rifiuti", "Testamento"), né le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sarebbero sufficienti a dimostrare l'assunto. Ciò, soprattutto, in forza del fatto che le dichiarazioni di diversi collaboratori (su tutte, quelle di Paolo Iannò), andrebbero a smentire le affermazioni del pentito "prediletto" del pm Lombardo, quel Nino Fiume per anni organico alla cosca De Stefano. Fiume, infatti, aveva raccontato che a Peppe De Stefano fosse stata attribuita la carica di "Crimine" della 'ndrangheta, la più importante, quella che gli avrebbe dato un ruolo sovraordinato anche rispetto ai grandi capi delle cosche: "Nessuna gestione unitaria delle attività delittuose – scrivono i giudici della Corte d'Appello di Reggio Calabria – bensì un complesso di regole, elaborate, con l'accordo, in occasione della "pax mafiosa", per porre fine ai contrasti e mantenere l'armonia nei rapporti tra le cosche, prima tra tutte quella concernente la ferrea spartizione dei proventi relativi ad estorsioni svolte in "locali" assoggettati al dominio di più sodalizi".

La super-associazione avrebbe esercitato un potere normativo cogente in grado di stabilire regole dotate di unanime riconoscimento e validità, applicate da tutti – imprenditori e 'ndranghetisti, parenti e amici – intervenendo con un ulteriore potere punitivo sugli eventuali trasgressori: "Non vi è prova – scrivono i giudici reggini – che tali regole fossero state imposte da un organismo verticistico costituito dai capi delle cosche più importanti, per essere osservate nell'ambito di tutto il mandamento reggino, né che le intese e gli accordi tra le diverse cosche fossero stabilmente regimentati a monte da un consesso gerarchico superiore".

E anche gli attriti – in particolare tra le cosche De Stefano e Tegano – non vengono letti dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria come un segno della creazione della super-associazione, ma, piuttosto, come fibrillazioni dovute, soprattutto, a questioni di natura economica. Da ultimo, infatti, la Corte d'Appello stronca l'assunto secondo cui l'attività estorsiva nella città di Reggio Calabria fosse stata organizzata tramite le nuove regole stabilite dal "Crimine", Peppe De Stefano: "E' emerso come le attività estorsive e di controllo delle attività economiche rientrassero già nel programma criminoso delle diverse cosche e, in linea generale, venissero perpetrate dai singoli gruppi, in modo autonomo, nel territorio di rispettiva insistenza, salvi occasionali "sconfinamenti", o specifici affari intrapresi in sinergia, situazioni consentite, tuttavia, solo con il preventivo accordo dei capi "locale" interessati, e non certo in virtù della supremazia esercitata dai vertici delle cosche più potenti o pericolosi, ancorché inclini a condotte prevaricatrici".

Un procedimento, quello "Meta", in cui erano alla sbarra i principali boss della 'ndrangheta cittadina, che avrebbero messo da parte anni di guerra e uccisioni al fine di spartire meglio affari e giro di estorsioni. Un processo che scaturisce dagli accertamenti svolti dal Ros dei Carabinieri per catturare il superboss Pasquale Condello, detto "Il Supremo", arrestato il 18 febbraio 2008 dopo molti anni di latitanza. Un'ipotesi investigativa (e poi accusatoria) ambiziosa quella portata avanti in primo grado dal pm Giuseppe Lombardo e in appello dal sostituto pg Giuseppe Adornato: dimostrare come le principali cosche di Reggio Calabria – i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Libri – si fossero trovate d'accordo nel comporre una sorta di direttorio, con a capo Giuseppe De Stefano, per gestire in maniera automatizzata (e indisturbata) il giro delle grandi estorsioni e dei grandi appalti. Sarebbero le "nuove regole" che proprio Peppe De Stefano, figlio di don Paolino, carismatico boss ucciso agli albori della seconda guerra di mafia reggina, avrebbe portato in città, per controllarne ogni respiro della vita sociale, economica e politica. Quattro grandi cosche che, dopo la mattanza scatenatasi dal 1985 al 1991, avrebbero trovato la pace, ma, soprattutto, sarebbero state in grado di guardare in faccia la modernità, dandosi un nuovo assetto. Un'ipotesi che, però, resta fine a sé stessa: "Gli odierni imputati – dicono ancora i giudici – risultano, come accertato con sentenze passate in giudicato, affiliati in modo stabile, addirittura con cariche verticistiche, ai clan di provenienza, ai quali sono strettamente legati in virtù di indissolubili legami di sangue".

Nonostante le dure condanne, dunque, non supera il vaglio dell'Appello il processo "Meta". E ritorna d'attualità, la dicotomia creata in passato con il procedimento "Crimine", che, però, ha retto fino alla Cassazione, sancendo l'esistenza "di un'unica organizzazione criminale di riferimento, la cui natura unitaria è stata affermata, con efficacia di giudicato, nell'ambito del processo "Crimine" e discende dall'accertata esistenza di un organismo collegiale sovraordinato, la "Provincia", che, quantunque non destinato a intervenire nelle attività gestite dai singoli locali, svolge un ruolo pregnante sul piano organizzativo, garantendo l'omogeneità delle regole di fondo dell'organizzazione, non solo in Calabria, ma anche in diversi ambiti spaziali, nazionali e internazionali".