13enne stuprata dal branco a Melito Porto Salvo, parla il padre: "Così ho saputo del ricatto a mia figlia"

processoricatto12gendi Claudio Cordova - Aveva paura per se stessa, ma anche per i suoi genitori la 13enne di Melito Porto Salvo, abusata sessualmente per mesi dal branco capeggiato dal fidanzatino, Davide Schimizzi, e da Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo Iamonte. Aveva paura proprio di Giovanni Iamonte, che la aveva minacciata del fatto di poter "creare problemi" anche ai genitori, qualora la ragazzina non avesse assecondato le sue voglie.

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La circostanza emerge in aula per bocca del padre della piccola (oggi quasi diciottenne), che ha risposto alle domande del pm Francesco Ponzetta nell'ambito del procedimento che vede alla sbarra il branco. L'uomo ha ripercorso la propria storia familiare: il padre ucciso in un agguato, i sospetti sui membri della famiglia Iamonte (assolti per il delitto), la separazione dalla moglie, a causa (anche) della relazione intrattenuta dalla donna con Remingo Iamonte, padre di Giovanni. L'uomo ha raccontato di aver appreso nel giugno 2015 di quanto stava accadendo alla figlia: "Si parlava di foto e di un filmato" dice. La giovane, infatti, avrebbe subito il "ricatto" (da qui il nome del processo) da parte di Schimizzi, che la avrebbe di fatto indotta ad avere rapporti sessuali con i suoi amici, per evitare di divulgare alcune immagini osé della ragazzina: "Scopro anche che mia figlia era in cura da una psicologa e che in quel periodo praticava atti di autolesionismo".

Mesi di incontri multipli, in auto, in zone di campagna, persino nella casa storica della famiglia Iamonte, ad Annà: per tutto quel tempo, i giovani melitesi si sarebbero tolti ogni voglia con Sally (nome di fantasia, ndr).

L'uomo, quindi, appreso del circolo vizioso in cui era entrata la piccola, incontra alcuni dei protagonisti, Antonio Verduci, e Giovanni Iamonte, appunto. Con quest'ultimo, il confronto più serrato: "Non sono sceso nei particolari, ma lui mi disse di non aver mai toccato mia figlia e aggiunse "e puru si fussi? (e anche se fosse, ndr) o mi ammazzi o mi denunci". Gli risposi che non sarebbe finita lì". La famiglia Iamonte, a Melito Porto Salvo e dintorni, controlla ogni cosa: da semplici macellai, negli anni '70, sono riusciti ad assurgere ai livelli più alti della 'ndrangheta. E ciò si aggiunge al ricatto subito dalla giovane. Giovanni Iamonte, avrebbe infatti fatto pressioni sulla ragazzina, anche con sms tramite whattsapp: "Va mazzati (vai e ucciditi, ndr)" l'ultimo inviato. Ma, ancor prima, avrebbe minacciato chiaramente la giovane di possibili ripercussioni nei confronti dei genitori: "Mia figlia era spaventata" racconta il padre. Addirittura, il branco avrebbe anche pestato un giovane di un paese limitrofo a Melito Porto Salvo, colpevole di volersi fidanzare con la ragazzina.

Iamonte. Un cognome, una garanzia di 'ndrangheta.

Significativo, in tal senso, l'incontro casuale avuto con Natale Iamonte, fratello maggiore di Giovanni: "Era informato della vicenda e mi disse che credeva a suo fratello. Io risposi che credevo a mia figlia e lui mi disse: se decidi di fare qualcosa fammi sapere". Il padre decide di fare qualcosa e, vincendo le resistenze della stessa figlia, ma, soprattutto, della moglie, denuncia ai Carabinieri, sebbene con ritardo: "Io volevo fare la denuncia, ma mia moglie e mia figlia erano tentennanti. Mia moglie, in particolare, diceva: 'ma poi ce ne dobbiamo andare da Melito...'".

La reazione di Melito Porto Salvo (al netto della fiaccolata di solidarietà) sarà, effettivamente, vergognosa. Ma dalla denuncia scaturiranno gli arresti e il processo tuttora in corso.