Orrore ai Riuniti: tre medici condannati per morte del feto e falsificazione cartella clinica

reggiocalabria ospedaliriuniti21aprdi Claudio Cordova - Tre anni e mezzo di reclusione ciascuno. Questa la sentenza emessa dal giudice Lucia Delfino nei confronti di Giovanna Tamiro, Pasquale Vadalà e Daniela Manuzio, tre medici degli Ospedali Riuniti, gli ultimi due già coinvolti nell'inchiesta "Mala Sanitas", che ha svelato gli orrori nei reparti di Ostetricia e Ginecologia del nosocomio reggino.

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I tre, portati a processo dal pubblico ministero Roberto Di Palma, rispondevano di fatti avvenuti nel settembre del 2010. Nelle rispettive qualità, il Vadalà di dirigente medico in servizio presso il reparto di Ostetricia e Ginecologia dell'Ospedale Riuniti di Reggio Calabria, la Manuzio, quale medico di turno nella mattina del 20.09.2010 e la Tamiro quale ostetrica di turno nella notte tra il 19 settembre ed il 20 settembre, poi rimasta in servizio il 20.09.2010 sino alle ore 12.44, per colpa non lieve, consistente in noncuranza, ignoranza e negligente adempimento dei doveri professionali, così come risultante dalle seguenti condotte omissive, causavano, operando in cooperazione colposa, il decesso di Domenico Opinato, figlio di Giuseppe Opinato e Daniela Occhibelli, evento che avevano l'obbligo giuridico di impedire.

Specificamente, in relazione alla paziente Occhibell, primipara alla 38^ settimana di gravidanza, ricoverata in ospedale sin dalla mattina del 19 settembre quando aveva rotto le acque, spostata nella notte dapprima in sala travaglio (ove veniva effettuato intorno alle ore 7.00 l'ultimo monitoraggio) e poi nella prima mattina del 20 settembre in sala parto, la Tamiro ometteva di compiere dopo le ore 7.00 ulteriori monitoraggi del battito cardiaco fetale con il cardiotografo, limitandosi alla mera auscultazione con stetoscopio, i dottori Vadalà e Manunzio si disinteressavano del tutto di verificare l'andamento del travaglio e di controllare l'effettuazione dei tracciati: le condotte omesse impedivano di cogliere i segni della sofferenza fetale (durata a lungo, almeno un'ora) che provocava, per ipossia e già in utero, data l'assenza di tumore da parto, la morte del feto (poi constatata alle ore 10.50 al momento dell'espulsione), evento morte, che avrebbe potuto, con criterio di elevatissima probabilità prossimo alla certezza, essere scongiurato se fosse stato effettuato il monitoraggio del battito cardiaco o se fossero stati colti dall'auscultazione i segnali della sofferenza fetale, con conseguente effettuazione del taglio cesareo d'urgenza che avrebbe evitato la morte.

Si tratta di una sentenza che potrebbe avere un'importanza fondamentale sul troncone principale del processo "Mala Sanitas": quell'indagine, infatti, sostiene come all'interno dei reparti di Ostetricia e Ginecologia fosse in moto una vera e propria macchina per la copertura degli errori sanitari, attraverso la falsificazione di atti. E anche nel caso Opinato-Occhibelli, i tre rispondevano in concorso tra loro, al fine di conseguire l'impunità, di aver formato nell'esercizio delle loro funzioni, un atto pubblico avente fede privilegiata parzialmente falso nonché per aver falsamente attestato in detto atto fatti che l'atto era destinato a provare. Specificamente, nel costituire la cartella clinica nr. 1749 relativa al ricovero della signora Occhibelli, formavano due tracciati cardiotocografici effettuati apparentemente costituenti parte integrante della cartella, materialmente falsi, perché effettuati ad altra gestante e perché oggetto di taglio nella parte destinata al nome della paziente, che nel tracciato delle ore 9.59 veniva apposto sull'ultimo foglio. Sottoscrivendo la cartella, falsamente affermavano che: alle ore 9.00 del 20.10.2010 la Occhibelli era stata sottoposta a tracciato (circostanza non vera); il liquido amniotico al momento del travaglio era chiaro, circostanza questa che non poteva essere accertata, almeno a partire dalla ore 8.00 del 20.09.2010, quando la testa fetale, risultando ben adattata allo stretto superiore del bacino, sicuramente impediva la fuoriuscita di liquido; le acque posteriori al momento del parto erano chiare, con assenza di meconio, circostanza questa impossibile da verificarsi, risultando dall'autopsia la presenza di meconio nei polmoni del feto.

Circa un anno fa il Gup di Reggio Calabria, Niccolò Marino, ha rinviato a giudizio tutti gli indagati del procedimento "Mala Sanitas", curato dai pm Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci contro una presunta rete di coperture degli errori sanitari nei reparti di Ginecologia e Ostetricia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. A giudizio vanno Luigi Grasso (Reggio, 64 anni); Maria Concetta Maio (Reggio, 64 anni); Daniela Manuzio (nata a Taurianova e residente a Reggio, 50 anni); Antonella Musella (nata a Salerno e residente a Reggio, 58 anni); Annibale Maria Musitano (Reggio, 69 anni); Roberto Rosario Pennisi (Reggio, 63 anni); Filippo Luigi Saccà (Reggio, 62 anni); Massimo Sorace (nato a Polistena e residente a Gioia Tauro, 44 anni); Giuseppina Strati (nata a Samo e residente a Reggio, 57 anni); Alessandro Tripodi (Reggio, 47 anni); Pasquale Vadalà (nato a Bova Marina e residente a Decollatura Catanzaro, 68 anni); Marcello Tripodi (Reggio, 54 anni).

Un'inchiesta – quella "Mala Sanitas" - che ha creato grande scalpore a Reggio Calabria e su tutto il territorio nazionale. Gli imputati dovranno rispondere di falso ideologico e materiale, di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri nonché di interruzione della gravidanza senza consenso della donna. Le condotte che l'indagine "Mala Sanitas" consegna alla popolazione fanno emergere uno spaccato agghiacciante degli Ospedali Riuniti, vero e proprio luogo di orrore, quasi di torture ai pazienti che, dopo i danni irreparabili causati dall'imperizia del personale medico venivano persino convinti della bontà del trattamento subito. Tripodi avrebbe praticato un aborto all'insaputa della sorella, sospettando che il figlio della stessa potesse nascere con alcuni problemi. Tripodi, per come emerso dalle intercettazioni telefoniche sospettava che il feto avesse delle patologie cromosomiche e ha fatto abortire la sorella non solo senza il suo consenso e quello del cognato, ma anche mettendo in piedi un piano criminale degno di un film horror. I medici non si sarebbero fatti alcuno scrupolo. La donna doveva abortire perché Tripodi aveva deciso che quel feto era malato. E allora occorreva agire subito. Senza il consenso della gestante e architettando tutto nei minimi dettagli. Gli inquirenti ci sono arrivati attraverso una serie di intercettazioni telefoniche a dir poco agghiaccianti. Inizialmente, infatti, l'indagine era sul conto della potente cosca De Stefano, essendo Tripodi nipote dell'avvocato Giorgio De Stefano, considerato a capo della cupola segreta della 'ndrangheta.

Accogliendo in toto l'impianto accusatorio portato avanti dal pm Di Palma, il giudice Delfino mette un primo punto su quelle dinamiche. La sentenza, seppur di primo grado, potrà ora essere "spesa" nel maxiprocedimento, che vede alla sbarra solo alcuni medici per il reato di associazione per delinquere.

Quanto al caso Opinato-Occhibelli, i tre dovranno anche risarcire, insieme all'Azienda Ospedaliera, i genitori del piccolo, costituitisi parte civile. Il giudice Delfino ha disposto che la quantificazione del risarcimento sia quantificato in altra sede, ma ha condannato imputati e Azienda Ospedaliera al pagamento di una provvisionale di 75mila euro per ogni parte civile.