Carnevale è morto

carnevaledi Vito Teti* - Carnevale, allora, è morto. Moriva nei riti e nelle rappresentazioni del passato. Moriva per eccessi nutritivi, che rendevano inutile ogni intervento di medici e infermieri. Moriva tra pianti e risate di familiari inconsolabili, confortato dall'assistenza dei preti, e riusciva a fare testamento. Il fantoccio che lo rappresentava (molte volte una persona lo raffigurava durante il corteo funebre) era poi bruciato o gettato in un burrone. Arrivava la Quaresima e affermava rigore e digiuni. Quasi dovunque la «carne» che veniva «levata», «innalzata» (l'antica e romana «Carnem levare» secondo alcuni) veniva «azata», «tolta», «tconservata» il Martedì Grasso, martedi dell'Azata. I giorni del Carnevale e altre feste agrarie con evidenti motivi e ritualità carnevalesche, però, si protraevano in pieno periodo quaresimale (soprattutto negli anni, come questo, in cui Carnevale cadeva basso) quando persistevano comportamenti carnevaleschi legati spesso all'uccisione del maiale.

Il Carnevale ambrosiano a Milano è il più noto. Anche da noi, in molti posti, però, i festeggiamenti finivano la domenica successiva a quella di Carnevale. A San Giovanni in Fiore, comunità di grandi e complesse ritualità canevalesche, le «frassie» erano recitate e suonate da tantissimi "mascherati" la domenica successiva a quella del Carnevale.

Carnevale, adesso, però è morto, senza più «tornare», come nelle società tradizionali. Antropologi, demologi, storici, letterati, scrittori, pittori hanno "narrato" il Carnevale del passato, fornendone spiegazioni e interpretazioni le più varie e suggestive, spesso «ideologizzate» e «romanticizzate» sulla scia delle interpretazioni del Carnevale (spesso meccanicamente riprese) di Bachtin.

A dispetto della morte di Carnevale, tuttavia, continuano le riflessioni e le analisi sul perché della sua morte e anche gli interrogativi su cosa ne rimane oggi. Marco Belpoliti, uno dei più attenti e raffinati narratori della contemporaneità, in un' interessante riflessione su "La Stampa" del 5 febbraio, sottolinea come ormai «il Carnevale non ha più ragione di esistere» in una «società liquida» dove la trasgressione regna sovrana, la parola turpe e l'insulto hanno invaso i luoghi della comunicazione pubblica, televisione e social network hanno rotto gli argini eretti nel passato: l'insulto è pubblico e replicabile. «Il mondo non sembra possedere più alcuna verticalità, poiché i sistemi comunicativi e produttivi hanno prodotto l'orizzontalità totale. La festa dei pazzi, il mondo alla rovescia, è ogni giorno dell'anno. L'anarchia, la confusione, il rimescolamento sono stati permanenti. Lo stesso mascheramento, il travestimento, tipico del Carnevale e del suo spirito sovvertitore, è oggi un fatto comune e consueto». David Bowie, icona trasgressiva, è stato celebrato in morte da tutti. La domanda viene spontanea: se la trasgressione è continua, cosa vuol dire oggi trasgredire? Jean Starobinski, ricordato da Belpoliti, parlando del clown, per secoli soggetto preferito di pittori, musicisti e registi, aveva preconizzato all'inizio degli anni Settanta una profonda mutazione in corso della figura del clown, ormai sceso per le strade, e depositato in ciascuno di noi. Concludeva Starobinski: «Non ci sono più limiti, non c'è più infrazione. Rimane la derisione». Una previsione perfetta, secondo Belpoliti.

Nei primi anni Settanta anche Pier Paolo Pasolini segnalava l'omologazione in corso nella società italiana, dove le antiche civiltà del pane, dei beni necessari e sacri, non superflui, erano ormai irrimediabilmente scomparse. In realtà, si potrebbe cogliere nell'arrivo di quella che abbiamo definito «modernità» lo sfarinarsi delle società tradizionali e dei riti e simboli (come quelli di Carnevale) che in quelle società trovavano le loro ragioni economiche, sociali, culturali di esiistere. Ho ricordato (anche in un articolo apparso su "Il Quotidiano del Sud" del 5 febbraio) come già negli anni Cinquanta l'emigrazione da fine Ottocento a inizio anni Cinquanta diventasse una grande causa di trasformazione, che svuotava paesi, case, campagne ed erodeva culture e saperi tradizionali. I comizi elettorali degli anni che vanno dal Cinquanta a metà anni Settanta sostituivano le farse a sfondo sociale. La metafora contadina (come scriveva acutamente Mariano Meligrana) veniva erosa e così si dissolveva un società metaforica per eccellenza, un universo dove solo al "poeta" era consentito di dire la verità.

Credo, inoltre, che bisogni segnalare come la "festa della carne" (legata a un regime di precarietà alimentare e spesso di fame) perdesse sempre ragione di esistere in un mondo dove ormai, come diceva un noto logan pubblicitario, con «pasta Barilla è sempre domenica» e dove l'abbondanza veniva, finalmente, raggiunta fino a trasformarsi in spreco. Già per contadini e braccianti che partivano dal paese della fame (adopero un'espressione di Piero Camporesi uno dei nostri maggiori studiosi della letteratura carnevalesca) l'America diventava un Realizzato Carnevale, un Raggiunto Paese di Cuccagna: quello che la Montagna aveva rappresentato per i briganti di Padula, Misasi, Alvaro). Con il boom economico e la diffusione dei beni di consumo presso tutti gli strati della società (restano naturalmente sacche ed area di povertà e di sofferenza) il Carnevale non aveva più ragione di esistere. Il desiderio di morire per stravizi alimentari, per avere mangiato e bevuto a «scasciapancia», era la proiezione rovesciata della paura di morire per fame, come efficacemente notava Camporesi? Si può oggi sognare di morire di abbondanza quando si muore, davvero, per la quantità e la qualità del cibo che ingeriamo? E persone obese, con gravi patologie legati all'alimentazione, possono avere come modello il grande corpo carnevalesco o invece non hanno sogni di magrezza e terrore della pancia? Il rapporto Carnevale-Quaresima si è rovesciato, dissolto, trasformato come la percezione e la valutazione che si aveva del magro e del grasso.

Che senso aveva «levare la carne» e poi «toglierla» e conservarla in un mondo in cui la carne di maiale, le salsicce, le braciole, le polpette cessano di essere alimenti eccezionali e rituali? Il Carnevale resiste o torna a metà anni Sessanta con forti e ambivalenti connatazioni ideologiche e talora all'interno di concezioni «neoromantiche», e spesso come critica alla società dei consumi e degli sprechi, delle diete obbligate e inventate). Oggi tutto è mutato e assistimo a una specie di «ritorno» al «ritorno del Carnevale», spesso di ritorno al revival degli anni Settanta-Ottanta.

La domanda è: in una società "liquida" (ma sarà poi così?), ortoressica, di obesi, di sprechi dove l'irrisione e la derisione fanno parte del linguaggi politico, in un mondo segnato da conflitti inediti e da povertà immense, cosa raccontano ancora i Carnevali di Colonia, di Rio, di Venezia, di Viareggio? Cosa esprimono le tante manifestazioni che si svolgono nei centri della regione? Sono soltanto una banale imitazione e ripetizione di modelli esterni, spettacolari, televisivi? Sono solo luoghi dove trionfa un neo-folklorismo deteriore insieme a tanti interessi di gruppi di potere locali? O non bisogna anche cercare di decifrare passione, impegno, fantasia, voglia di presenza di giovani, Circoli, Associazioni? Non serve, ed è ingeneroso, un atteggiamento liquidatorio e aristocratico di fronte a manifestazioni della contemporaneità, comunque poi le si voglia interpretare.

E quei riti di Carnevale che resistono o tornano dalle nostre parti, nei paesi in spopolamento e lungo le marine desolate, troppo piene d'estate e troppo vuote d'inverno, cosa vogliono dirci? I cortei e le farse di Carnevale che sono stati ripresi a Siderno e ad Amaroni, a Borgia e a San Nicola da Crissa, a Cutro e a Bovalino e in tanti altri paesi non ci presentano un'archeologia e un'antropologia del presente? Ritorno nostalgico all'arcaico? Rimpianto del buon tempo andato? Bisogno di una nuova presenza? Ricerca di una nuova socialità, di sacralità e di convivilaità? Lascio aperte queste domande. Intanto invito a nuovi cammini, a nuovi viaggi, a nuove esplorazioni, a nuove scommesse per non interpretare la realtà, con pigrizia, con sguardo desueto e stanco, ripetendo luoghi comuni o analisi e descrizioni di cento anni addietro. Cosa dicono giovani e giovanissimi che mescolano linguaggi e colori, navigano tra tradizione e post-modernità, parole antiche e internet, piazze e paesi vuoti e il pieno.vuoto dei blog? Fanno parte di una società solo in apparenza liquida che in realtà rivela la forza e la potenza del locale, degli stracci, delle schegge, delle rovine che sembrano chiedere una nuova vita?

Se i Potenti del mondo, la globalizzazione, il capitalismo e lo jiadismo, sembrano dominare la scena di un mondo sempre più in crisi, segnato da conflitti e da guerra, da sprechi e da fame, da profondi divari sociali e tra le aree del mondo, dove è andato a finire il Carnevale come spazio di una nuova opposizione e di una cultura antagonista? Il riso liberatorio è davvero finito o non bisogna ravvivarlo per contrastare modelli omologanti e sistemi oppressivi, arcaici, violenti? Davvero la satira più sferzante può essere censurata e occultata col nostro silenzio? E noi possiamo rassegnarci a vedere le statue e le icone della nostra migliore tradizione artistica e culturale per compiecere chi reprime ogni forma di ppposizione e di diversità? Il Carnevale (da reinventare) non avrebbe praterie aperte dove le gerarchie economiche, bancarie, religiose cercano di affermare un lugubre Regno? Non c'è nessuna risata capace di mostrare ai nostri politici che annunciano, e che non amano le critiche e il dissenso, che il «re è nudo»?.

*Ordinario di Antropologia Culturale dell'Università della Calabria