Il tradimento dei chierici

reggiocalabria altodi Claudio Cordova - Ma dove sono finiti tutti? Tutti quelli che, nel periodo di commissariamento del Comune per 'ndrangheta e fino alla campagna elettorale per il "ritorno alla democrazia", annunciavano di mettere al servizio di Reggio Calabria i propri ruoli, le proprie competenze, la propria passione per il rilancio della città.

Svaniti, dissolti, evaporati.

Erano i rappresentanti della Reggio "migliore". Rectius, di quella che dovrebbe essere la Reggio "migliore": venivano dal mondo delle professioni, degli intellettuali, dell'associazionismo, dell'imprenditoria. A distanza di oltre quattro mesi dal voto, hanno dimostrato di aver tradito, ancora una volta, la città.

Reggio Calabria è vittima, nuovamente, della sua classe migliore.

E' quello che il pensatore francese Julien Benda nel 1927 definì, con la propria opera, "Il tradimento dei chierici". Ove per "chierici", anzi "clercs" in lingua originale, erano definiti gli intellettuali ipocriti, infedeli e ingannatori. Traditori perché creatori di falsi miti o propugnatori di idee e posizioni artefatte e nocive per la società. Benda partirà dall'affaire Dreyfus, l'ufficiale ebreo che in Francia sarà accusato e condannato da innocente per tradimento e spionaggio con la Germania a causa dell'antisemitismo. Di fronte a quell'ingiustizia, a quella che oggi avremmo definito "macchina del fango", Benda si sarebbe aspettato la presa di posizione degli intellettuali del tempo (siamo tra fine 1800 e inizi 1900). Ad esclusione del "j'accuse" di Emile Zola troverà il silenzio o, peggio ancora, il servilismo verso il potere.

Ecco "il tradimento dei chierici". Nella Francia di fine '800, nella Reggio Calabria degli anni 2000 e ancor prima.

E' la costante della città, quella di aver visto, sistematicamente, voltare le spalle agli uomini e alle donne che, invece, per posizione, per cultura, per forza economica, avrebbero potuto sopportare – completamente o in parte – il peso dei periodi bui, come quello che viviamo. E' stato, sempre, invece, l'opportunismo a fare da padrone: e così in tanti, nel periodo antecedente alle elezioni del 26 ottobre scorso, hanno subdolamente messo la faccia, cercando di occupare, a volte per acclamazione, poltrone di comando. Altri ci hanno anche provato, subendo l'ignominiosa (ancorché scontata) bocciatura delle urne.

Sfumata la prospettiva di una poltrona, hanno deciso, nuovamente, di farsi da parte. Di ritornare a coltivare il proprio orticello.

Nel suo bilancio dei primi mesi di attività, il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, ha, ancora una volta, sostenuto come in città veda i semi di quella partecipazione, di quella consapevolezza e coscienza civica necessarie per ripartire. Mente sapendo di mentire, per stimolare la condivisione, quella vera, da parte della cittadinanza. A meno che non si sia accontentato – e speriamo francamente di no – di avere in giunta uomini e donne "in quota" Università, piuttosto che Confindustria o altre realtà, per poter parlare di condivisione e di contributo organico e fattivo all'operato politico della Giunta.

Non basta. Non basta affatto. Senza la condivisione da parte di chi potrebbe fare e dare tanto alla società, la politica può fare poco. Soprattutto nelle condizioni in cui è chiamata ad agire.

Il Dispaccio lo ha già scritto qualche giorno fa: quella spinta propulsiva che doveva partire dal basso sembra essersi esaurita in fretta. Si richiamava Falcomatà al cambio di passo per non far scivolare la città nell'indolenza. E' finito il tempo in cui l'associazionismo, ma anche la "rete" interveniva con idee e proposte.

E' finito in fretta, purtroppo. Si è passati (ritornati) alla protesta senza volontà di (ri)costruire. Per provare a cambiare le cose vi è spesso un prezzo da pagare. Un prezzo che quasi nessuno è disposto a sobbarcarsi. E così si ritorna alla protesta sic et simpliciter: talvolta giustificata, viste le condizioni della città, talvolta del tutto strumentale per colpire e schernire l'Amministrazione Comunale.

Questo Falcomatà non può ignorarlo. Anche se è suo compito continuare a dare fiducia alla popolazione. Ma non dipende (solo) dal giovane sindaco. Nei momenti difficili, una comunità dovrebbe appigliarsi ai propri personaggi più rappresentativi.

Una delle più grandi sfortune di Reggio Calabria è quella di non averne. O di avere persone di elevata cultura e di importanti capacità economiche, disposti solo a correre per sé stessi o, al massimo, per i propri referenti.

E non è un caso che Reggio Calabria, tranne sporadici esempi (sicuramente non contemporanei) non possieda figure imprenditoriali capaci di legare il proprio marchio alla città, svolgendo quindi non solo un ruolo sotto il profilo economico, ma anche sotto il profilo sociale. Dei "Mecenate", capaci di trainare il tessuto economico e sociale, creando posti di lavoro, ma anche investendo su immobili, infrastrutture e, perché no, realtà associative e sportive. Non è un caso che – con le dovute proporzioni – Reggio Calabria non abbia mai avuto il Benetton di Treviso o l'Illy di Trieste, giusto per fare due esempi. Ma solo e soltanto imprenditori reggini pronti ad andar via dalla città non appena possibile o altri, venuti da fuori per aggrapparsi a questa o quella mammella per succhiare tutto fin quando possibile.

Reggio Calabria è nuovamente tradita da quella che doveva essere la sua parte migliore.

Persone di estrema preparazione che però nelle dinamiche cittadine – di natura politica, sociale, economica, ecc. – risultano assolutamente impalpabili. Dimostrando di non essere interessati alla crescita del territorio e abdicando, quindi, al ruolo di intellettuali che, per definizione, sono colori i quali che, con il pensiero e la riflessione, commentano gli interessi politici ed economici e incidono sull'operato di questi poteri.

Resta quindi solo il "cattivo genio" dei pensatori reggini: intellettuali prostituiti alla tirannia. Economica, politica, massonica ecc. ecc.. E' la regola. Saperlo aiuta anche a comprendere come i posti di potere, negli Enti, siano lottizzati in modo da assicurare il mantenimento degli equilibri e dello status quo. L'asservimento di chi dovrebbe essere invece libero per antonomasia, di chi dovrebbe prestare le proprie competenze alla crescita di una società: dare per esempio un'occhiata agli organi di stampa, spesso in mano a questa o quella lobby, politica e non solo, disposti ad esaltare o demolire un personaggio, un'idea politica, un progetto, assecondando così gli ordini dei padroni, più o meno occulti.

La "nostra letteratura da coito di mosche" la chiamava Benda.

E così, in un'assolata domenica mattina, è possibile ascoltare di sfuggita due signori di mezza età, ben vestiti e molto noti in città. Parlano animatamente, si confrontano, talvolta si scontrano. "Serve l'onestà intellettuale di farsi da parte se non si è in grado di agire con lucidità" dice l'uno all'altro. "E' vero – risponde l'altro – non si può sperare di salvarsi con 40enni vicini alla pensione".

Parlavano di Lillo Foti e del difficile periodo vissuto dalla Reggina.