di Claudio Cordova - Deve esserci una consapevolezza particolare, una sensibilità più spiccata per svolgere il ruolo di giornalista in Calabria e a Reggio Calabria. Si deve sentire il peso (ma allo stesso tempo non rimanerne schiacciati) di svolgere un compito delicato in una terra assai problematica. Una terra che ha bisogno di conoscere più cose possibile, ma in cui una notizia fornita in modo parziale o sbagliato, può creare più danni di una bomba.
Non interpreto la perquisizione subita da "L'Ora della Calabria" come un attentato alla libertà di stampa, come pure qualcuno ha voluto ipotizzare. Appare fin troppo evidente a qualsiasi persona abbia esercitato la professione di giornalista per più di dieci minuti che la notizia che il collega Consolato Minniti è riuscito a trovarsi danneggi delicate indagini in corso. Consolato ha pubblicato (preannunciandone peraltro almeno un seguito) degli stralci di verbale di alcune riunioni della Direzione Nazionale Antimafia sulla trattativa Stato-mafia e sul ruolo che la 'ndrangheta possa aver avuto nella "strategia della tensione" degli anni '90, alla luce delle affermazioni fatte dall'ex collaboratore Nino Lo Giudice in uno dei suoi due memoriali di ritrattazione.
Su quelle vicende, infatti, indagano varie Procure e lo Stato si gioca una partita assai delicata nel tentativo di riportare un po' di verità su alcuni dei fatti più oscuri della storia d'Italia.
E' quindi fin troppo evidente che vi sia stata una "fuga di notizie", come peraltro affermato dal procuratore Cafiero de Raho in una dichiarazione apparsa su alcuni organi di stampa, ma non ricevuta (e quindi non pubblicata) né dalla Redazione del Dispaccio, né da quella di altre testate con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi. "La divulgazione costituisce reato perseguibile di ufficio e compromette gravemente attività di indagine in corso" è scritto nella presunta nota stampa con riferimento ai contenuti dell'articolo di Consolato Minniti.
Sta proprio qui il punto: facendo un sondaggio tra i vari colleghi che si occupano di giudiziaria, sono sicuro che tutti – e dico tutti – si siano imbattuti, almeno una volta, in una notizia coperta da segreto istruttorio. Talvolta si tratta di piccole cose, piccoli passaggi investigativi ancora da svelare, altre volte – come nel caso portato alla ribalta da Consolato Minniti – di vicende enormi e particolarmente significative.
A quel punto scatta il meccanismo: pubblicare tutto, perché il giornalista deve andare avanti sempre e comunque o far prevalere l'aspetto etico, quello di non intralciare (neanche potenzialmente) indagini in corso di cui, evidentemente, i soggetti interessati non devono averne notizia prima che i tempi siano maturi?
Forse un giornalista, talvolta, deve essere capace di rinunciare anche a uno scoop, se questo può danneggiare interessi (e valori) superiori come quelli della verità e della giustizia.
Ma che "il caso Lo Giudice" (e la sotterranea guerra tra toghe) abbia instaurato un corto circuito nell'informazione, tesa – in alcuni casi – a innalzare una parte e a demolire l'altra, è chiaro ormai da tempo e lo stesso Cafiero de Raho, in più occasioni, ha fatto sentire la propria voce. All'inizio di luglio affermava: "Uno dei problemi e' l'informazione. Non e' possibile che non si consenta ad un procuratore di replicare su una notizia o su una dichiarazione che getta fango sulle istituzioni. Quando un'istituzione viene messa in cattiva luce sarebbe opportuno dare la possibilità di difenderla a coloro che la rappresentano. L'obiettivo e' gettare fango su tutti, affinchè nessuno sia infangato. Ciò e' avvenuto ad esempio sul caso Lo Giudice". Assai più di recente, invece, il capo della Procura ribadiva: "Reggio Calabria è un territorio che ha bisogno di trasparenza, di un'immagine di legalita' che corrisponde esattamente a quello che sentono degli operatori che credono negli ideali piu' alti, come tanti appartenenti alle istituzioni che oggi vogliono un cambiamento serio che necessariamente deve passare attraverso una voce trasparente, una voce che corrisponde esattamente alla realta' e che non rappresenti all'esterno una realta' diversa da quella effettiva".
Sia chiaro, sono certo che Consolato Minniti non abbia violato alcuna legge. Lo conosco e lo stimo, anche se spesso non condivido alcune sue posizioni o quelle del giornale per cui lavora. No, lui non ha violato alcuna legge, ma chi ha fatto trapelare documenti top secret come quelli rintracciati dal collega, sì. Non è Consolato Minniti, né la sua libertà di stampa, di cronaca, di critica o di opinione a essere l'obiettivo della Dda di Reggio Calabria e della Squadra Mobile.
Il mirino, invece, deve essere ben puntato su chi – come è accaduto sempre più spesso negli ultimi mesi – da dentro le Istituzioni gioca con vari mazzi di carte, destabilizzando gli ambienti giudiziari e alimentando la sfiducia della gente.
Posso immaginare che per un cronista impegnato come è Consolato una perquisizione che coinvolge sia il posto di lavoro, sia l'abitazione possa essere vissuta come un'invasione, quasi come un atto di violenza. So che Consolato sarà capace di andare avanti. Però non credo che la perquisizione subita da "L'Ora della Calabria" sia un attentato alla libertà di stampa, soprattutto se, come sembra, i file di interesse siano stati solamente clonati. E' un atto dovuto, perché secondo la Dda di Reggio Calabria è necessario individuare gli ispiratori delle fughe di notizie che hanno portato lo scoop sulla prima pagina de "L'Ora della Calabria".
E non è un caso che il provvedimento di perquisizione e sequestro, secondo quanto racconta nel proprio editoriale il direttore Piero Sansonetti, sia stato firmato, oltre che dal procuratore Cafiero de Raho, anche da numerosi magistrati, appartenenti alle varie "anime" all'interno della Procura di Reggio Calabria: dagli aggiunti Nicola Gratteri e Ottavio Sferlazza al sostituto Giuseppe Lombardo, passando per i pm Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo.
Perché nessuno deve essere al di sopra della legge: neanche i giornalisti o le misteriose (per ora) "gole profonde".