Sempre chili di carne sono!

macellaiodi Nino Mallamaci* - "Buongiorno don Peppinu (o don Carmelu, o signora Maria), mi dati un chilu i lacertu, menzu chilu i carni tritata e un chilu i ffettini? Però, piffavuri, mi dissi me mamma mi vi raccumandu non mi 'ndannu nervi, chi sunni pi cotoletti". Almeno un'ora del sabato pomeriggio era dedicata alla grossa spesa per la domenica. Quando ero ragazzo, il vegetarianesimo era sconosciuto alla mia famiglia come alla maggior parte delle persone, e dietro il rituale pranzo si celava una vera mattanza di vitelli e manzi o altro. Sicuramente, se il riscaldamento globale è provocato anche dagli allevamenti intensivi di bovini, un buon contributo l'abbiamo dato anche noi. Al desco partecipavamo tutti i figli e la nipotina residenti in loco, ai quali si aggiungevano mia sorella col marito appositamente giunti dalla città, l'altra sorella quando era in zona in vacanza col marito, qualche cugino desideroso di gustare la pasta al forno (o, slurp, i cannelloni) e i polpettoni di mia mamma.

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Si poteva verificare qualche minima variazione del menu, con la caponata di melanzane, l'insalata russa, il gateau di patate (per noi il gattò), i peperoni ripieni (pipi chini), e altre prelibatezze.
Una costante, per lunghi anni, fu l'arrosto, per preparare il quale occorreva appunto il lacerto (dal dizionario: "il pezzo corrispondente al primo taglio della coscia del manzo tra il girello e il soccoscio", ma chi se ne fregava? Era una squisitezza e basta).
E allora, il sabato a me o a mio fratello Bruno toccava questa fondamentale missione. La discussione che precedeva la scelta era fortemente condizionata dal taglio di banconota che mia madre aveva a disposizione al momento. Se era di grosso taglio, la disputa aveva come posta in palio l'aggiudicazione del viaggetto in macelleria. Il contrario se la pecunia era di piccolo taglio. Perché? Se non lo capite da soli ne devo arguire che vi manca un pezzo importante dell'adolescenza, o semplicemente che i vostri genitori erano molto generosi nell'elargizione di danaro. Infatti, con un pezzo da diecimila lire era difficilissimo fare in modo che qualche carta da mille rimanesse impigliata nella tasca. Avete presente la famosa frase: "Sono (ad esempio) un chilo e due, che faccio lascio?". Ecco, se avevi due o tre pezzi da dieci, al momento di restituire il resto potevi trattenere duemila, anche tremila lire: una fortuna! "Mamma, don Peppinu (o don Carmelu, o a signora Maria) fici un chilu e dui i lacertu, non un chilu". Mia mamma non si poteva certo dedicare a ripesare la carne, con tutto il da fare che aveva. E, sinceramente, non era così attenta al denaro da fare storie. Qualche problema poteva crearlo mia sorella, che era invece, da questo punto di vista, tutta mio padre e la madre di mio padre. Il controllo, tuttavia, poteva essere scansato con qualche stratagemma. E a noi non mancava certo la fantasia.
Ma com'è che adesso, con questa bella giornata di sole che inviterebbe a scorrazzare in giro per la città in bicicletta, mi è venuta in mente tutta questa storiella? E' colpa anche stavolta della mia amica Stefania. Quando mi reco in bici in via De Nava, il sabato mattina, a gustare il secondo caffè – decaffeinato, maledetta pressione – o il terzo, se mi sono già fermato da Mimmo "camomilla", a fare colazione al bar ci trovo le habituées Stefania e Carmen, con le quali scambiamo sempre due chiacchiere. Oggi il colloquio è stato incentrato sulla mia dieta, che, mi sono lamentato, in due settimane di sacrifici ha prodotto un dimagrimento di un misero chilo e mezzo. Che poi aveva ragione Einstein, tutto è relativo. Se togli un chilo e mezzo da dieci chili, esso rappresenta un sostanzioso e significativo 15 % sul totale. Se, invece, parti da 96 (diconsi novantasei) chili, concentrati soprattutto sulla panza e nel faccione, e sottrai 1,5 chili, la percentuale è di poco superiore all'1 %. Cioè, dovrei stare a stecchetto per mesi e mesi, una vera tortura che mi fa pensare al famoso detto di Ennio Flaiano il quale, a proposito della mania di avere un corpo perfetto, sentenziò: "Viviamo per arrivare in forma alla morte". Ora, se devo rinunciare a tutto per arrivare in forma alla morte, magari tra qualche anno, senza avere mangiato, bevuto, fumato, e via di questo passo, meglio fottermene e campare, per il tempo che mi rimane, libero e grassone. Allora Stefania se n'è uscita con una delle sue. "Ma scusa, mi ha detto, guarda che un chilo e mezzo non è affatto poco. Tu pensa a un chilo e mezzo di carne (e incavando le mani a distanza me ne ha fatto eloquentemente apprezzare il volume) e toglilo dal tuo corpo. Guarda che è un bel pezzo!" E allora mi è venuto in mente don Peppinu (o don Carmelu, o a signora Maria) quando riponeva nella carta oleosa il lacerto per l'arrosto della domenica. E non era per niente piccolo, fosse esso di un chilo (quale effettivamente era) o un chilo e duecento (quale era per mia madre). Mi ha incoraggiato, Stefania. Però mi ha fatto balenare un'idea che non sarebbe niente male per dimagrire d'emblée senza dannarsi l'anima. Un buon macellaio, armato di coltello, una tavolozza in marmo sulla quale stendersi, un anestetizzante potente, e ... via, due o tre chiletti in meno dalla pancia. Come dite? Esiste già la chirurgia estetica? Lo so, ma i costi sono esorbitanti. Un bravo macellaio farebbe lo stesso lavoro, con la stessa maestria, pagandolo a peso. Dieci euro al chilo, come la carne di vitello o di manzo.

* Avvocato e scrittore