Reggio Calabria e la banalità del male

reggiocalabria alto500di Claudio Cordova - In una canzone di qualche anno fa, i Litfiba cantavano "non è la fame, ma è l'ignoranza che uccide". Reggio Calabria ne è intrisa. Come è intrisa di quella (sub)cultura mafiosa, che porta a credere che, conoscendo la persona giusta, tutto sia consentito o che le liti, le divergenze e le controversie personali possano essere risolte a colpi di pistola o con la violenza.

La vile aggressione al parroco del Divin Soccorso, don Giorgio Costantino, è l'ultimo – forse il più toccante e vomitevole – episodio registratosi in città nelle ultime settimane.

Poco più di una settimana fa, un postino incensurato di 29 anni, B.A., è stato ferito in un agguato compiuto nel centro di Reggio Calabria. L'uomo è stato raggiunto da colpi di pistola alle gambe e ad un braccio. L'agguato è scattato verso le 7 quando l'uomo è uscito da casa. Appena entrato in auto è stato affiancato da un ciclomotore con a bordo due persone col volto travisato. Uno dei due è sceso ed ha sparato alcuni colpi di pistola da distanza ravvicinata, ferendolo. I due sono fuggiti subito dopo. All'inizio della settimana in corso, invece, è toccato a un architetto essere affiancato da due uomini a bordo di uno scooter ed essere attinto da alcuni colpi di pistola. Anch'egli, 46enne, incensurato.

Due episodi che, almeno fino al momento, gli inquirenti non legano a dinamiche di 'ndrangheta. Ma che, a ben guardare, trasudano mentalità mafiosa. Quella mentalità che vede il sotterfugio come potente mezzo per raggiungere i propri obiettivi, quella mentalità che vede la violenza come arma di convincimento o come punizione per qualche presunto torto. Come nel caso di don Giorgio Costantino. Un gruppo di ragazzi che viene sgridato dal parroco e l'aggressione. E poco importa che a colpire sia stato uno solo e che gli altri non abbiano mosso un dito. La gravità di quanto accaduto non consiste (solo) nell'aver ferito gravemente un uomo di Dio, ma nell'aver, ancora una volta, "lavato" con la violenza un presunto torto.

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Accade questo quando in una città "salta" tutto. Quando una comunità viene disgregata, quando viene infiltrata in ogni sua infrastruttura, quando gran parte delle Istituzioni con il proprio operato instilla una sfiducia diffusa, che porta a credere solo nella propria forza muscolare e, quando questa non c'è, nella propria furbizia, condita di illegalità.

Oltre a uccidere, depredare, corrompere, inquinare e rubare il futuro, la 'ndrangheta ha ottenuto un ulteriore, fondamentale, obiettivo. Convincere la popolazione, come temeva Corrado Alvaro, che vivere onestamente sia inutile e che, viceversa, ispirarsi a un presunto "codice d'onore" sia l'unica traccia da seguire.

E' quella che Hannah Arendt chiamava "La banalità del male".

Chi spara a un uomo per ragioni personali o lavorative, chi pesta un prete per un rimprovero, è divorato dall'ignoranza e, talvolta, proprio come diceva la Arendt, non dovuto a un'indole necessariamente maligna, quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significhino le proprie azioni. Ma persone totalmente calate nella barbara realtà reggina. E questo, appunto, non significa non essere malvagi: è malvagità non essere consapevoli di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, è malvagità essere braccio intenzionalmente inconsapevole per colpire un proprio simile.

"Non è la fame, ma è l'ignoranza che uccide". Non c'è Comune infiltrato o appalto milionario truccato, che valga quanto questa drammatica condizione: Reggio Calabria, Anno del Signore 2017.