Reggio Calabria: se la lotta alla ‘ndrangheta rallenta in Corte d’Appello

reggiocortedappellodi Claudio Cordova - In Corte d'Appello a Reggio Calabria c'è un problema. Troppe, negli ultimi mesi, le sentenze mitigate o, peggio, ribaltate, nei confronti della 'ndrangheta del distretto. Escludiamo, fin da subito, qualsiasi tipo di sospetto sulla magistratura che opera a Piazza Castello, che lavora, come quella dell'intera provincia, in condizioni drammatiche, in primis sotto il profilo della scopertura degli organici. Puntiamo invece l'attenzione sull'approccio culturale. Si badi bene, nonostante la becera vulgata cittadina, chi scrive punta alla giustizia vera, all'obiettivo di affrancare il territorio dalle logiche e mafiose e non alle condanne sic et simpliciter.

Al bando, però, il garantismo d'accatto che da queste parti è sinonimo di impunità.

La magistratura giudicante, a prescindere dal grado di giudizio, non deve ridurre il proprio ruolo a quello di supino passacarte dell'accusa. Deve, però, essere parte della lotta alla 'ndrangheta, vero cancro del territorio e ostacolo a ogni forma di sviluppo. E però, gli ultimi mesi hanno registrato diverse sentenze d'Appello che hanno pesantemente ridimensionato o, peggio, cancellato con un colpo di spugna, anni di indagini. Dalle cosche della Piana di Gioia Tauro, passando per quelle della Locride, senza dimenticare alcune pronunce che hanno riguardato il capoluogo, Reggio Calabria: la costante è la riduzione delle pene rispetto al primo grado di giudizio.

Da ultima, la sentenza che ha escluso l'aggravante mafiosa per l'incendio che ha distrutto il "Caffè Mary" bar ubicato in un territorio ad alta densità mafiosa, come quello di Ravagnese a Reggio Calabria. O, ancor prima, l'esclusione delle aggravanti mafiose nei confronti dei soggetti che avrebbero estorto del denaro all'imprenditore Giuseppe Triolo. Per non parlare del dissequestro dei beni all'imprenditore Pietro Siclari, considerato vicino alla cosca Libri: una decisione peraltro comunicata in ritardo agli organi inquirenti che, stando a quanto si apprende, avrebbero perso così l'occasione di fare ricorso.

Si è già escluso ogni tipo di sospetto.

Allora l'approccio è assolutamente culturale. In un momento in cui la Procura della Repubblica di Federico Cafiero De Raho ha deciso di alzare il livello sulla cupola massonica che governa la città, da parte di tutti è necessario un salto di qualità, che peraltro tenga conto delle più recenti, fondamentali, pronunce giurisprudenziali, come quella del processo "Crimine". Invece, alcuni dei giudici della Corte d'Appello di Reggio Calabria sembrano condurre, tuttora, una battaglia di retroguardia, non solo sui "massimi sistemi" della 'ndrangheta del Distretto, ma anche sui casi più piccoli, in cui sono i cittadini a denunciare e a chiedere giustizia.

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E tutto ciò fa ancora più danni. Come si può chiedere ai cittadini di denunciare la 'ndrangheta e, più in generale, il malaffare se poi, dalla magistratura (inquirente e giudicante) non arriva uno sforzo cognitivo di conoscenza delle dinamiche territoriali, oltre che, ovviamente, del Diritto?

Dei procedimenti sopracitati, vanno ancora rese note le motivazioni, ma ad oggi viene da chiedersi: come è possibile non considerare "modalità mafiose" la distruzione di un bar a mezzo incendio? O, ancora, come si può dire che non vi siano modalità mafiose se a un commerciante (che peraltro trova il coraggio di denunciare) vengano chiesti soldi per soddisfare le esigenze dei detenuti? Si vuole forse affermare che Reggio Calabria sia arrivata a un livello di subcultura così drammatico che le beghe personali vengano "risolte" incendiando beni a destra e a manca? O che, a corto di liquidità, i parenti dei detenuti possano andare a "chiedere" denaro a questo o quel commerciante?

Sarebbe la sconfitta sociale di un territorio, se tutto ciò venisse messo nero su bianco nelle motivazioni delle sentenze. E, comunque, sarebbe qualcosa che chiaramente stride col Codice.

Allora ecco che deve cambiare l'approccio culturale. Reggio Calabria è totalmente nelle mani della 'ndrangheta e per questo, chi la combatte deve porsi in maniera adeguata per dare risposte ai cittadini. Deve quindi calarsi in una realtà complessa, in cui tutti sono legati a tutti e in cui i diritti sanciti dalla Costituzione (lavoro, mobilità, libera associazione, ecc.) vengono costantemente lesi e calpestati. E per esempio stride fortemente l'esclusione delle aggravanti mafiose per le condanne emesse sull'omicidio di Marco Puntorieri, scomparso per un caso di "lupara bianca", con la condanna di soggetti pregiudicati per 'ndrangheta o comunque ritenuti assai vicini alla cosca Libri.

La Corte d'Appello di Reggio Calabria non deve diventare, né essere percepita, come un supermarket o un outlet in cui poter godere di "saldi" dopo il periodo dei prezzi pieni o dei rincari. Eppure, anche nei maxiprocessi tra i più importanti celebrati nel Distretto, è raro, rarissimo, che le dure condanne emesse nei primi gradi di giudizio riescano a superare le sforbiciate della Corte d'Appello. Da parte di tutti – e quindi anche da parte dei giudici di Piazza Castello – occorre una presa di coscienza del male supremo, che è la 'ndrangheta: solo attraverso la comprensione del fenomeno, ribadiamo, anche alla luce delle ultime conquiste giurisprudenziali, la lotta alla criminalità organizzata potrà subire un'accelerazione, almeno sotto il profilo repressivo.

Continuando a banalizzare, invece, comportamenti, dinamiche, accumulazione di ricchezza, si contribuirà solo a far fare bella figura agli avvocati della mala.

E allora sarà ridicolo chiedere, nei convegni, nelle conferenze stampa, nei dibattiti, lo scatto di reni culturale alla cittadinanza.