La morte di Carnevale / Conclusione

carnevalemascheredi Vito Teti* - Chiudo queste mie «memorie» del Carnevale, affidate ai lettori de Il Dispaccio, con un resoconto etnografico e una microstoria di un rito che, pure nella sua peculiarità, è emblematico di una tradizione carnevalesca e delle feste agrarie di quel periodo ancora vive in tutta la Calabria negli anni Cinuanta del Novecento e di cui si conservano memorie e tracce significative e che spesso sono oggetto di recupero e reinvenzione. Negli anni della mia giovinezza gli abitanti del mio paese erano conosciuti in tutto il Vibonese come «farsari di San Nicola», vale a dire poeti e autori di farse o, con significato rovesciato, persone amanti dello scherzo e del gioco, ma anche da non prendere sul serio. Le immagini e le rappresentazioni, interne ed esterne, anche quando tipizzazioni generiche, raccontano, in qualche modo, la realtà. Ne ho già parlato nei precedenti due post dedicati alle feste di Carnevale, ai quali rinvio, ma a conclusione mi piace segnalare Risalgono alla fine del Settecento, le prime testimonianze scritte e orali segnalano la presenza a S. Nicola da Crissa (allora S. Nicola di Vallelonga) di «'mprosaturi», improvvisatori di parole, sfotto e storie che irridevano i notabili o i forestieri. In quel periodo un tal Nicola Russo descrive, in una poesia divertita e ironica, la ricostruzione della chiesa di S. Nicola alla Cutura distrutta dal terremoto del 1783 ed è autore di sferzanti versi rivolti ai forestieri presuntuosi che venivano in paese. A inizio Ottocento, durante la dominazione francese, «pappù» Colacchio, con i suoi versi in cui chiede ai «nazionali» rispetto della propria dignità, e la moglie, nonna Marianna, con la sua capacità di dissimulare, riuscirono a raggirare gli invasori francesi, salvando le sopressate e i salati e nascondendo, in maniera provvidenziale, le giovani donne, che i soldati stranieri volevano violentare. E qui c'è da ricordare un intervento miracoloso del patrono, San Nicola, che, nella notte, prende a bastonate l'ufficiale francese, che si dà alla fuga assieme alla sua pattuglia. Le anziane Posterare (le sorelle Bosco e, prima, la madre Caterina Martino) mi hanno trasmesso anche versi di Colacchio, che risponde per le rime a due giovani benestanti che lo sfottevano e lo provocavano. I poeti e i farsari avevano facoltà la verità e le persone toccate dalle loro «parole» non dovevano offendersi. Infatti, negli anni Cinquanta e Settanta, i farsari prendono in giro, facendo nome e cognome, amministratori comunali, medici e professionisti, commercianti e macellai imbroglioni, persone di «malaffare» senza che questo comportasse offesa. Negli anni venti dell'Ottocento sono processati numerosi giovani patrioti e giacobini che irridevano, anche con burle e scherzi pesanti, i sanfedisti del paese. La lotta politica e amministrativa nel paese conserverà fino ad anni recenti una dimensione carnevalescca. Il Carnevale era occasione per criticare, sfottere, irridere anche gli avversari nelle aspre lotte «politico-amministrative», che si svolgevano tra famiglie, fazioni e gruppi economico-sociali.

A inizio Novecento, i giovani studenti, insieme a contadini e artigiani, rappresentano una farsa di Carnevale che parla della guerra di Eritrea. La collaborazione tra notabili, ceti intellettuali e contadini o artigiani e un tratto originale di un rito che aveva, in questo caso, un carattere, come si diceva una volta, «interclassista». Il riferimento critico alla situazione politica locale o più generale; la lamentela per il decadimento dei valori e dei costumi tradizionali; l'ironia nei confronti di quanti introducevano novità che turbavano la morale vigente: sono altri motivi delle farse di questo e di altri paesi.

Nella prima metà del Novecento dal rione della «Citatella» uscivano frotte di mascherati, farsari, suonatori che, per quattro domeniche e poi martedì grasso, detto dell'azata, festeggiavano Carnevale nelle strade, nelle case, nei vicoli. Un personaggio leggendario della Citatella, Mico de Don Ninu, sul letto di morte, al passaggio dei mascherati davanti alla casa in cui abitava, si fece portare dalla moglie una padella per «tingersi».

Il dopoguerra e i primi anni Cinquanta sono gli anni della farse di Turi, Bruno de Betta, Vitantone de Lu Pinnatu, Tropeano. Ë il periodo dei colorati cortei interminabili col Carnevale morto, accompagnato da mascherati-fratelli per le vie del paese e nelle piazze, che si concludevano con il bruciamento del fantoccio. La parodia dei rituali funebri e dei riti religiosi è un altro motivo caratterizzante di comunità che conoscevano grandi contrasti e conflitti legati alla presenza delle confraternite. Bisognerebbe parlare a lungo, ricordando il ruolo centrale che le confraternite svolgevano nella vita religiosa, sociale, culturale dei paesi). Gli anni Cinquanta restano l'ultimo periodo in cui i farsari attiravano centinaia di forestieri che, entusiasti, ammiravano vestiti, trucchi, travestimenti, linguaggio, gestualità dei farsari di San Nicola. Erano le farse con l'omaggio all'Imperatore Carnevale e l'elogio dell'abbondanza e della carne di maiale. Erano le farse che censuravano i vizi e le malefatte della comunità.

Con l'emigrazione degli anni Cinquanta partono i giovani che si mascheravano, suonatori, i «musicanti» della banda del paese, che si spostava in tutta la Calabria per suonare durante le processioni e fare «servizio di palco». Carnevale si ammala e muore lentamente, ricordato dai pochi farsari che non erano partiti e ormai salutato e celebrato con mangiate che non erano più eccezionali e rituali.

L'inizio degli anni Settanta – nel clima del dopo sessantotto, di revival folklorico, nascita del Circolo Arci "La Scintilla" – conosce un singolare e originale "ritorno" di Carnevale, che vede assieme vecchi farsari e giovani studenti, laureati, diplomati, mastri, artigiani. Sono anni di esplosione e turbolenza politico-amministrativa, di vivacità sociale culturale, di nuova convivialità e, in fondo, di speranza. Molti mi ritornano come personaggi da "Cent'anni di solitudine": Giamba e Mastru Micuzzu, lu Sciorì e lu Sceriffu, Tecco e potrei fare un lungo elenco di nomi, volti, storie, episodi, scherzi, giochi. Bevute e mangiate. Cortei carnevaleschi e manifestazioni per rivendicazioni sociali e politiche. In paese e a Vibo. A Catanzaro e a Roma. A pensare a quegli anni mi sembra di vedere una vicenda di grande liberazione e voglia di vivere e di cambiare le cose.

Comincia a metà fine anni Ottanta un periodo di grande difficoltà per questo e per altri paesi della Calabria. Nuovi esodi, partenza dei giovani per studiare o per cercare lavoro al Nord, ritorni sempre meno frequenti degli emigrati, perdita di slancio dei circoli e dei giovani che avevano animato la vita culturale e sociale della comunità. Nessuna amministrazione che si succede riesce (ma questo vale per tutti i paesi) ad arrestare il declino, lo spopolamento, la chiusura delle case, il vuoto dei periodi estivi, la fuga delle persone. Del Carnevale restano tracce e memorie nella sfera quotidiana e festiva, in occasione dell'uccisione del maiale e di una convivialità sempre viva.

Lo spirito carnevalesco soffia sempre in questa comunità che continua a sentire la bellezza e la pesantezza della tradizione di Carnevale. Da qualche anno, il Circolo Arci riorganizza, con le nuove generazioni, il «tradizionale» corteo di Carnevale morto. Protagonisti giovani e giovanissimi, donne e ragazze che "rappresentano" se stesse, in maniera diretta e inedita, e marcano una grande rottura rispetto al passato. Una novità interessante sono le farse, tra arcaico e moderno, volute dalla parrocchia, e rappresentate nei locali dell'ex Asilo infantile. Tradizione e modernità, linguaggio popolare e modelli televisivi e dei media, antiche battute e nuove ironie, gestualità di un'altra epoca e gesti del tempo presente, sono ingredienti di eventi che ancora attirano le persone. Protagoniste (ed è una novità la presenza delle donne) e protagonisti sono giovani diplomati, laureati, professionisti che hanno un forte radicamento nel paese e nella «tradizione». Molte «attrici» e «attori», che scrivono i testi recitati con grande bravura e trasporto, sono nipoti, discendenti, eredi dei farsari del passato e dell'universo agro-pastorale tradizionale ricco di «improvvisatori» e «personaggi» dotati di grande ironia. Nelle feste di Carnevale e in quelle religiose del periodo invernale si nota la presenza di giovani e giovanissimi, donne e uomini, con tanta voglia di partecipare e inventare. Il «ritorno» al Carnevale rientra in un bisogno diffuso dei tanti rimasti di non rassegnarsi al declino e alla chiusura del paese. Un bisogno di cui si fanno diversamente carico parrocchia, amministratori, circoli, confraternite. Bisogna guardare con attenzione e interesse a queste iniziative. Non solo come studioso, ma come abitante di questi luoghi, lo faccio con grande partecipazione, simpatia e con una buona dose di nostalgia utopica. Ma anche senza mitizzare il passato e assumere un atteggiamento neo-romantico rispetto al presente.

Lo spopolamento dei paesi e il loro vuoto spaziale, culturale, sociale – che rientra in una crisi demografica che riguarda tutto il Sud e nell'abbandono decennale delle aree interne – possono essere però contrastati senza raccontarsi favole o creare illusioni fatte di annunci e di buone volontà. La fuga, l'apatia, l'indifferenza, la solitudine sono diventati ormai elementi costitutivi di un degrado che non può essere affrontato con terapie leggere e con medicine a effetto placebo. Le strade e i vicoli deserti, con le case vuote e chiuse, i centri storici disabitati, non torneranno, certo, a vivere soltanto grazie alle iniziative e alle resistenze ammirevoli dei rimasti che cercano di riempire in giorni eccezionali, di festa o d'estate un grande vuoto. Sono segni da considerare e valorizzare, che alimentano speranze, ma hanno bisogno di memoria e pazienza, velocità senza approssimazione, lentezza senza stagnazione, persuasione e cura, attenzione e progetti concreti, cura e passione, impegno politico, sociale ed etico. C'è bisogno di una visione locale di un problema più generale. Occorrerebbe un grande progetto e piano di rinascita economica per la montagna, i paesi, i centri storici, le aree interne. Un nuovo piano Marschall o un new deal con una rinnovata tensione conoscitiva e concreta a favore dei luoghi in abbandono e dei margini e delle periferie create dalla modernizzazione devastante e violenta. Ci vorrebbe, a livello nazionale, regionale, locale, un ceto politico e dirigente capace di avviare un processo di rinnovamento e di rinascita. Lo dico con dolore e con tristezza: tante isolate rondini non fanno una primavera. Ragazze e ragazzi che camminano, cercano, studiano, si divertono, organizzano feste, partecipano a riti, offrono pani e cibi, non vorrebbero partire ma sono con la valigia pronta, aspettano un lavoro, hanno sogni, sono spaesati e appaesati come i giovani dell'intera Italia, avrebbero bisogno di un'idea di futuro che, allo stato attuale, la politica, a livello nazionale e locale, ha negato e non sembra voler inventare. Si parla e si lamenta la fuga dei cervelli all'estero, ma poi non si fa nulla per trasformarle in risorse preziose nelle nostre università, nei nostri centri di ricerca, nelle città e nei paesi. E con questi cervelli fuggono altri non meno vivaci e brillanti cervelli dei giovani diplomati e laureati che non trovano lavoro e vivono sotto ricatto della politica o l'oppressione intollerabile della criminalità. E solo ogni tanto appare sulla scena una come Roberta D'Alessandro, giovane ricercatrice italiana che vive in Olanda, vincitrice di un bando Consolidator dell'European Research Council, che alle congratulazioni del ministro dell'Istruzione, università e ricerca Stefania Giannini ha risposto: «Abbia almeno il garbo di non unire, al danno, la beffa, e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono. Proprio come noi». Con parole semplici e di verità, magari da pronunciate a tempo debito e anche facendo nomi e cognomi dei responsabili, si può mostrare almeno come il Re sia nudo e faccia solo parole e chiacchiere, annunci e proclami, tendenza a prendersi i meriti altrui, nel tentativo di occultare il proprio fallimento. Un vizio nazionale che da noi ha grandi cultori.

Che fine ha fatto il futuro? Si domanda in un bel libro l'antropologo Marc Augé. Che fine ha fatto Carnevale? La risposta vera è che, inteso come luogo di protesta, liberazione, rinnovamento, è morto. I leggeri rumori carnevaleschi (anche le parole di verità che smascherano i potenti e la classe politica) che continuano a spirare forse potrebbero indicare una via (che assieme a decisive e mirate iniziative economiche, culturali, ideali) per un suo ritorno e per la rinascita di luoghi che anche quando sembrano morti, a volte lo sono, ma continuano a reclamare vita.

*Ordinario di Antropologia Culturale dell'Università della Calabria