di Claudio Cordova - Sospettavano che fosse incinta. Incinta di un altro uomo. Per questo l'hanno uccisa e ne hanno occultato il cadavere. Non lasciano spazio a dubbi le 64 pagine firmate dal Gup di Reggio Calabria, Carlo Alberto Indellicati, per motivare la sentenza, emessa sul finire del 2013, con cui - in accoglimento dell'impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra - sono stati condannati a trent'anni di reclusione ciascuno Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, ritenuti mandante ed esecutore materiale dell'omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, fatta scomparire e uccisa nel marzo del 1994 per salvare l'onore del capoclan: Le motivazioni ignobili e disprezzabili che hanno sorretto i responsabili dell'omicidio della Costantino fanno ritenere integrata la circostanza aggravante del motivo abietto, considerato che trattasi di un terribile gesto deciso da componenti una famiglia mafiosa per punire una ragazza ritenuta responsabile di aver tradito un membro della famiglia instaurando rapporti sentimentali extra coniugali; il tutto al fine di punire una persona che non si era piegata alle norme comportamentali della 'ndrangheta" scrive il Gup Indellicati.
Dalla collazione dei documenti di natura medica agli atti dell'indagine, infatti, emergerà come la situazione della donna "poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente". Ma per la 'ndrangheta non esiste "garantismo". Un unico sospetto può bastare per eliminare una giovane donna. Lo scrive il Gup Indellicati: "Non è dunque l'eventuale stato di gravidanza della Costantino, quanto, piuttosto, il sospetto fondato da parte dei familiari del marito della stessa che la donna fosse incinta, condizione che rendeva, comunque, inaccettabile la condotta di vita della ragazza poi scomparsa".
Angela Costantino, 25enne all'epoca dei fatti, sarebbe stata uccisa per "un accordo di famiglia" a causa della sua relazione extraconiugale con un uomo nel periodo in cui il marito era detenuto. I suoi assassini l'avrebbero raggiunta alle prime ore del giorno del 16 marzo 1994. Da circa un mese abitava a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice. Lì, infatti, era più facilmente controllabile. A uccidere materialmente la donna sarebbe stato Fortunato Pennestrì. Bruno Stilo – uno dei "vecchi" dello storico clan Lo Giudice di Reggio Calabria – sarebbe invece stato tra i mandanti del delitto.
Non ha dubbi il Gup Indellicati: "Una donna che appartiene ad un clan come quello dei Lo Giudice non poteva permettersi di gettare disonore e fango su tutta la famiglia: unica sanzione possibile, pertanto è la morte(...) E la responsabilità per il gravissimo efferato delitto non può che essere di coloro che dirigevano il clan mentre gli altri componenti erano in libertà ed ossia Bruno Stilo che dava ordini e Fortunato Pennestrì estremamente attivo per conto della cosca, sotto le direttive degli esponenti di vertice non detenuti come lo Stilo, avendo ereditato la gestione in concreto della relativa attività criminosa forzosamente abbandonata dagli esponenti detenuti".
Un caso che la Procura di Reggio Calabria arriverà a risolvere, finalmente, nel 2012, quando verranno arrestati i presunti responsabili. Per anni, infatti, non si riuscirà ad arrivare alla verità e l'indagine subirà due archiviazioni. Per il resto il fascicolo prenderà polvere.
Sul tema, uno dei magistrati che si occuperà del caso, l'allora sostituto Franco Mollace, metterà in campo un clamoroso dietrofront.
Escusso in aula in qualità di testimone nel processo contro il clan Lo Giudice, Mollace (sollecitato per i propri rapporti con Luciano, considerato l'anima imprenditoriale della famiglia) ricorderà con fermezza la propria azione contro la famiglia originaria di Santa Caterina: "Assieme al collega Palamara chiedemmo ordinanza di custodia cautelare sia per la scomparsa della cognata, Angela Costantino o Cosentino, non so come si chiamava". Rispondendo alle domande del procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, e del sostituto Beatrice Ronchi, l'ex magistrato di Reggio Calabria, Francesco Mollace, aveva enumerato alcune attività svolte contro gli ambienti della cosca Lo Giudice. Un passaggio di rilievo, nel racconto dell'ex sostituto procuratore generale, dato che sia il procuratore Cafiero de Raho, sia il pm Ronchi lo incalzavano sulla natura della conoscenza portata avanti con Luciano Lo Giudice. Mollace ricorderà l'attività che avrebbe svolto diversi anni prima: "Un fascicolo relativo alla scomparsa, è una vicenda molto delicata questa, che io ho fatto un'attività presso Villa Aurora. Si sosteneva, praticamente, di un ricovero della signora presso Villa Aurora, ricovero che celava altre ragioni, cioè ricoverata per A, ma invece la patologia era B. E di questo ne ha parlato Maurizio Lo Giudice, ne parlò diffusamente. Poi ne hanno parlato altri collaboratori, ma non li ho trattati io e sulla base di tutta una serie di attività, il sequestro di cartelle cliniche, interrogatorio di persone, ripeto, non posso ricordare tutto perché il GIP praticamente liquidò con poche battute la consistenza della cosa, ha respinto la nostra richiesta, perché le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice non avevano trovato riscontro". A distanza di un mese e mezzo, però, l'ex sostituto procuratore generale si schiarirà le idee e farà pervenire una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone e chiamato a decidere le sorti del clan Lo Giudice (seppellito da decine di anni di carcere). Una lettera in cui Mollace ritirerà le affermazioni rese, ammettendo di aver fatto confusione o comunque di aver ricordato male, rispetto alle attività portate avanti negli anni in Procura. Tra la testimonianza e le "precisazioni" di Mollace diversi passaggi: il pm Ronchi svolgerà degli accertamenti volti a dimostrare l'incongruenza dei fatti riferiti da Mollace rispetto alla realtà. Carte, quelle presentate dal pm Ronchi, che indurranno il presidente del Collegio a verbalizzare "la falsità delle affermazioni di Mollace". Da qui, dunque, il dietrofront del magistrato.
Dalla lettura delle carte, comunque, emerge come il materiale indiziario su cui si muoverà l'inchiesta sarà – per lo più – composto dai medesimi elementi: le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e l'escussione delle persone che, a vario titolo, avrebbero condiviso gli ultimi mesi di vita di Angela Costantino.
Ad aprire squarci di luce su una vicenda oscura, che finirà anche sulla tv nazionale tramite "Chi l'ha visto?" è il collaboratore Maurizio Lo Giudice, fratello di Nino "il nano" e di Luciano. Già in un interrogatorio del 1999, anno di inizio della sua collaborazione, Maurizio Lo Giudice, indica Pennestrì come un esponente di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo: "Dopo l'arresto dei miei fratelli che era ... che prendeva in mano tutta ... tutta la famiglia nel ... nel periodo dei soldi ... cioè dopo che sono stati arrestati ... Natino Pennestrì prendeva ... andava pure a chiedergli i soldi a quella che ... che li avanzavano, cioè lui aveva preso tutta questa, tutta questa ... dell'usura ... sì, perché le estorsioni erano fino all'arresto dei miei fratelli, che dopo non siamo andati più a Santa Caterina, dopo c'è stata la pace lì e allora non siamo andati più [...] All'arresto dei miei fratelli era Bruno Stilo, mio cugino Domenico e mio fratello ... mio nipote Fortunato...".
E proprio nel 1999, Maurizio Lo Giudice, racconta agli inquirenti della scomparsa di Angela Costantino, parlando, fin da subito, di una possibile eliminazione. Ed è proprio Maurizio Lo Giudice a parlare, per la prima volta, di una possibile relazione extraconiugale con un giovane, Pietro Calabrese, trasferitosi a Roma, forse per evitare ripercussioni mortali: "Aviva perdutu a testa, dottori!" dirà al pm che lo interrogherà. E sarebbe stato proprio Natino Pennestrì, colui il quale avrebbe strangolato la giovane Angela, a esercitare su di lei un controllo ossessivo nel periodo in cui Pietro Lo Giudice era detenuto. Pennestrì sarebbe arrivato addirittura a "interrogare" i quattro figli piccoli della donna sui comportamenti della madre.
Non solo Calabrese, comunque, anche un altro giovane, Domenico Megalizzi, scomparso proprio nel medesimo periodo in cui sparì nel nulla Angela Costantino, avrebbe potuto avere una relazione con la giovane E scoperti dunque questi presunti rapporti, i Lo Giudice avrebbero preso la decisione di "risolvere la questione", senza però informare il detenuto Pietro Lo Giudice: "Pietro, mio fratello – dice Maurizio Lo Giudice - che era carcerato non doveva sapere nulla ... omissis ... si doveva solo fare la galera in pace, mio fratello Pietro, perché era carcerato, dottore". E sarebbe stato proprio Pennestrì a informare Maurizio Lo Giudice dell'accaduto, alcuni giorni dopo la scomparsa e nel corso dell'ennesima, fasulla ricerca: "I fatti ... così confessandomi che Angela era morta, dottore, che nella nostra famiglia non esisteva il verbo tradimento e che non abbiamo potuto fare niente per non macchiarci del nostro stesso sangue ...".
E così Angela Costantino scomparirà, lasciando i figli piccolissimi in completa solitudine, con il fuoco acceso sotto la pentola e tutti i documenti in casa. Scatterà inoltre la delegittimazione del personaggio. Dal racconto di Maurizio Lo Giudice: "In quei giorni Natino prese la palla al balzo che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po' di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per... la credibilità che Angela era veramente malata".
Dichiarazioni, quelle di Lo Giudice, che per anni resteranno solo parole. Poi, però, il pubblico ministero Beatrice Ronchi riaprirà le indagini e gli uomini della Squadra Mobile incroceranno le affermazioni di Lo Giudice con quelle di almeno altri due collaboratori di giustizia: Paolo Iannò e Domenico Cera.
Il primo è un collaboratore di giustizia ritenuto molto attendibile grazie al ruolo, elevatissimo, svolto nell'ambito della sua "carriera" criminale, come braccio destro e armato di Pasquale Condello, il "Supremo" arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008. Iannò, riferendo delle attività della cosca Lo Giudice, indicherà gli affiliati come responsabili del destino di Angela Costantino: "Loro sono responsabili della cognata. È stato, era la moglie di Pietro, è stato perché aveva la relazione extraconiugale ed è scomparsa". E questa volta la fonte diretta non sarebbe Pennestrì, ma lo stesso Bruno Stilo, uno dei soggetti più importanti della cosca Lo Giudice che, in un incontro in cui era presente proprio lo stesso Condello aveva "specificato" che l'uccisione, era una decisione presa da "loro i familiari tutti", "con un accordo di famiglia", e che l'uccisione era dovuta al fatto che la donna, "la moglie di Pietro", "aveva sbagliato" e che, dunque, non era vera "la notizia uscita sui giornali" che Angela fosse "pazza", "fatta" o se ne fosse andata volontariamente per le "preoccupazioni".
Angela Costantino non era scappata e non era pazza. Era stata uccisa.
E come ultimo, decisivo, tassello della vicenda, arriveranno infine le dichiarazioni di Domenico Cera, 'ndranghetista attivo tra Bova Marina e Bagnara Calabra: "e ... la moglie di Pietro Lo Giudice ... è stata uccisa dal cognato, da Vincenzo Lo Giudice", aggiungendo che il motivo addotto da quest'ultimo era stato che la donna "secondo lui, tradiva il fratello". Circostanza che Cera avrebbe appreso dallo stesso Vincenzo Lo Giudice che si sarebbe anche prodigato per crearsi un alibi, attraverso degli accorati, quanto falsi, annunci alla radio di Bagnara Calabra:" Abbiamo fatto anche, mi ha detto anche di parlare con quello della radio di Bagnara, perché lanciasse degli appelli per chi la ritrovasse, la dovesse riconoscere ... cosa che è stata fatta [...] "fargli da alibi, no; dire che era andato, mi ha impegnato anche a me a cercarla, ci siamo rivolti alla radio, ci siamo ...").
La giovane Angela Costantino uccisa per il proprio tradimento. Un tradimento al marito considerato un tradimento all'intera famiglia mafiosa. La donna non era più affidabile, non era più controllabile: "Angela sapeva troppi discorsi familiari! Angela non era un pericolo solo per Pietro, Angela era un pericolo per tutta la famiglia ... omissis ... seminava le sue tracce, quindi non ... dava il sospetto che potesse ... omissis ... faceva la stessa strada mia di collaborare con la giustizia; quindi era a rischio ... era a rischio tutto" dirà in un interrogatorio di circa un anno e mezzo fa Maurizio Lo Giudice.
Peraltro, sempre a detta del collaboratore Maurizio Lo Giudice, la famiglia sarebbe anche intervenuta al fine di "coprire" ogni traccia della presunta gravidanza della giovane. E lo avrebbe fatto intervenendo sul dottore Briatico (oggi deceduto) che seguirà sotto il profilo medico il caso della Costantino: "Stilo parla
con il dottore Briatico per sapere se davvero Angela era incinta, cosi confermandogli che era tutto vero,
intimorendogli di azzittirgli... azzittirsi di tutto ciò. se voleva la sua pace. cosi cancellando la maggior parte di prove che aveva nelle sue mani ... omissis . . . sicuramente avrà cambiato le cartelle cliniche".
Il tradimento è qualcosa di inconcepibile per la 'ndrangheta. Il Gup Indellicati sintetizza così: "La libertà che la donna cercava, anche attraverso una nuova relazione sentimentale, era assolutamente incompatibile con i canoni di vita che dovevano essere propri di una donna appartenente ad una famiglia 'ndranghetistica. Ecco dunque le limitazioni della libertà della donna-Angela che usciva scortata dalle cognate, i pedinamenti- ad opera di una Y10 di colore scuro con a bordo alcuni ragazzi giovani fra i quali Pietro Calabrese ha riconosciuto Fortunato Pennestrì; l'imposizione a cambiare luogo di residenza al fine di poter essere meglio controllata abitando nella nuova casa, sita nello stesso stabile ove vivevano i Lo Giudice, e dopo le minacce, le percosse continue".
Ma il materiale dichiarativo non si limita ai collaboratori di giustizia, comprendendo anche le affermazioni rese da Pietro Calabrese, uomo sospettato di una relazione con la giovane donna, nonché dei familiari di Domenico Megalizzi, giovane che scomparirà nel nulla pochi giorni dopo rispetto ad Angela Costantino. Un particolare inquietante, anche alla luce dei molteplici elementi che spingerebbero a pensare che fosse lui l'uomo di cui si era invaghita la giovane: le telefonate a casa di una ragazza a nome Angela che chiedeva di parlare con Domenico; la telefonata della sorella di una donna ricoverata (Angela Costantino sarà ricoverata a Villa Aurora circa un mese prima della scomparsa); la ricezione di alcune telefonate anonime con minacce nei confronti del giovane, "da collegarsi con la violenza psicologica e fisica attuata, nei confronti di Angela, da Pennestrì Fortunato, diretta a rammentarle gli obblighi di una moglie di un esponente della 'ndrangheta detenuto".
Pietro Lo Giudice, appunto.
Per questo il Gup Indellicati scrive: "Non può ritenersi fondata alcuna ipotesi alternativa all'omicidio di Angela Costantino. Per questo, ma anche per altro: la pentola rinvenuta sui fornelli con dentro il sugo bruciato, il rinvenimento dei documenti d'identità e degli anelli, dimenticati sul tavolino di casa, l'abbandono dei figli incustoditi a casa, l'appuntamento con la sorella Teresa Stella fissato per pochi giorni dopo la scomparsa, la nuova voglia di prendersi cura di sé stessa, il rinvenimento dell'auto della donna con il sedile del conducente arretrato rispetto all'altezza della Costantino. La donna non si sarebbe uccisa, ma sarebbe stata eliminata dal clan Lo Giudice. Del resto che si trattasse di un omicidio lo aveva riferito anche un anonimo che, composto il numero del servizio di emergenza "113", appena 2 giorni dopo la scomparsa della Costantino, comunicava: "Vedete che Angela Bercelleri non si è suicidata, deve essere sequestrata. è stata uccisa dai cognati e precisamente da Lo Giudice Domenico. figlio di Anna Votaro".
"Siamo dunque di fronte ad una pluralità di fonti probatorie e tutte convergono sul destino patito da Angela Costantino e sul perché di tale destino!" tuona il Gup Indellicati.
Una storia drammatica e squallida che, a fronte di alcune dichiarazioni complete (e decisive per la decisione in primo grado) verrà avvolta da una cappa di silenzi e di omertà. Alcuni soggetti assai vicini alla Costantino e che quindi in qualche modo potevano essere i più informati sulla vicenda, appariranno sempre non intenzionati ad agevolare l'attività degli investigatori. E' il caso di Elvira Lo Giudice, cognata di Angela: "Non intendo riferire nulla di Angela Costantino. Potete chiedermi quello che volete ma non ho nulla da dire; io ho alcuni figli a casa e non mi posso mettere ad ascoltare le vostre cavolate". Stesso discorso per la figlia di Angela Costantino, Eleonora Lo Giudice: "All'epoca della scomparsa di mia mamma io avevo 8 anni ed abitavamo in una casa accanto a quella di mia nonna paterna, in via XXV Luglio; dal momento della scomparsa di mia mamma noi figli siamo cresciuti con mia zia Lo Giudice Caterina; non ho nulla da riférire". E, ancora, Vincenza Stana Cama, moglie di Corrado Baccillieri, fratello di Angela il quale per primo aveva denunziato la scomparsa di questa: "Non ho altro da aggiungere; in ogni caso, io preferisco vivere cento giorni da pecora che uno da leone. questo è il mio motto".
Un omicidio maturato in ambienti di 'ndrangheta. La forza di intimidazione, l'omertà, la capacità di mantenere il riserbo anche su fatti così gravi. Sono tutti passaggi che nella complessa indagine si toccano con mano. Un ambiente dal quale Angela Costantino voleva distaccarsi: "L'omicidio è avvenuto evidentemente per motivi connessi all'insofferenza mostrata dalla donna verso un tenore di vita che non era più congeniale; all'età di 25 anni, la Costantino non si sentiva in grado di sostenere il peso di un'esistenza da mamma senza marito e con una famiglia- quella del coniuge- che le imponeva regole rigide fondate sul silenzio e sul rispetto dei principi che,evidentemente, non sentiva come suoi".