Ecco il ricorso delle associazioni contro la centrale a carbone di Saline Joniche

salineionichedi Simone Carullo - Corsi e ricorsi storici di una struttura maledetta, ombra di un fantasma che da quarant'anni arrugginisce al sole. E' la storia della Centrale a Carbone di Saline Joniche. Una storia strana, tipica del profondo Sud: torbida, confusa, che permane nel tempo sempre identica a sé stessa, che si trascina stancamente a furia di colpi di coda, e che sembra non finire mai.

Eppure una fine dovrebbe pure averla, almeno è quello che vorrebbe il Coordinamento Associazioni Area Grecanica- No Carbone, che ha presentato ricorso al Tar del Lazio contro il decreto del Ministero dell'Ambiente, e il decreto del Presidente Consiglio dei Ministri del giugno 2012, il DM del ministero dell'ambiente del 5 aprile 2013 ed ogni atto presupposto e consequenziale, compreso il parere n°559 del 2010, redatto dalla commissione tecnica di verifica d'impatto ambientale del Ministero dell'Ambiente. Atti con i quali è stata sancita la compatibilità ambientale e l'autorizzazione al progetto della centrale termoelettrica alimentata a carbone, presso Saline Joniche.
"Il ricorso – presentato ad inizio mese - si basa su sette articolati motivi di censura dei provvedimenti sopra indicati, fondati principalmente sull'illegittimo superamento del parere negativo ripetutamente espresso dal Ministero dei Beni Culturali, sulla violazione delle competenze del Ministero dello Sviluppo Economico, sulla mancanza assoluta di intesa con la Regione Calabria e sull'illegittima ed immotivata adozione dei provvedimenti conclusivi malgrado il parere negativo da questa espresso (in conformità al piano energetico regionale), sulla violazione della direttiva in materia di stoccaggio geologico del biossido di carbonio."

La lunga trafila istituzionale, le coraggiose battaglie della popolazione locale e delle associazioni per la salvaguardia dell'ambiente, la determinazione della SEI S.p.A, hanno infine trasformato quella che doveva essere una serena decisione sulla fattibilità di un progetto industriale, in una vera e propria battaglia campale. Un battaglia in cui il potere centrale si scontra con quello locale, in cui il Ministero dei Beni Culturali è in contrasto con quello dell'Ambiente, in cui la stessa popolazione è spaccata in due fronti. E' un incubo che ritorna, una ferita che non si rimargina e che sanguina da troppo tempo. Non basta il colpo all'occhio di una torre di 175 metri svettante su 700 m2 di ferri arrugginiti, non bastano gli sprechi e gli abusi perpetrati sulle spalle della popolazione, ma bisogna pure fare i conti con una lunga dolorosa diatriba che pone gli uni contro gli altri, ed alla quale lo Stato non è in grado di mettere la parola fine. Infatti, dal 2006 - quando la SEI S.p.A. acquistò il terreno dove sorge l'ex Liquichimica - ad oggi, sono passati quasi otto anni. Otto lunghi anni di lotte intestine, di corsi, controricorsi ed impugnazioni, di parole, urla, promesse, illusioni infrante e sospiri di sollievo interrotti in gola. Un lungo "iter procedurale" che ancora adesso non vede una conclusione e del quale l'attuale ricorso si propone di esserne il seppellitore.
Le argomentazioni poste a motivazione dell'istanza sono complesse ed articolate, e si concentrano anche sul ruolo giocato dalla Regione Calabria e dagli enti locali in questa storia. Ebbene, nel 2008, a seguito della presentazione del progetto, il Ministero dello Sviluppo Economico ha convocato una conferenza dei servizi invitando, oltre ai Ministeri competenti, anche gli enti locali. In questa conferenza il rappresentante della Regione Calabria ha presentato un documento - sottoscritto dal Presidente della Giunta Regionale, dal Presidente della provincia di Reggio Calabria e dai Sindaci dei Comuni interessati - col quale si ribadiva la loro contrarietà alla costruzione della centrale. La conferenza si è conclusa con la espressa richiesta del Presidente della Conferenza dei servizi alla regione Calabria di una formalizzazione del dissenso della stessa in merito all'iniziativa. La Regione Calabria ha così formalizzato il diniego all'autorizzazione per la costruzione della centrale a carbone con la delibera n. 686 del 6 ottobre 2008.

Stando a quanto scrivono gli avvocati titolari dell'istanza: "la conferenza dei servizi, e con essa il procedimento autorizzatorio, si sarebbe dovuta ritenere conclusa  già in questo momento poiché, a seguito del diniego della Regione, il responsabile del procedimento non avrebbe potuto che dichiarare l'impossibilità del rilascio dell'autorizzazione richiesta dalla SEI." Tuttavia, la procedura che ne seguì finì per "neutralizzare" il dissenso che la Regione, i numerosi enti territoriali, le associazioni, e lo stesso Ministero dei Beni Culturali, avevano già espresso nei confronti della realizzazione della centrale (e annesso elettrodotto di oltre 100 km), "in ragione dei danni al territorio, all'impianto produttivo, archeologico, culturale e sociale destinati che avrebbe prodotto sull'area grecanica e del basso Jonio Reggino."

Il testo, lungo 81 pagine, firmato dagli avvocati Vittorio Angiolini, Loris Nisi, e Stefania Polimeni - per conto di associazioni culturali e ambientaliste quali Italia Nostra Onlus, C.A.I., Mondo Verde Blu, Eureka, Nemesis, Consorzio di tutela del Bergamotto, ecc. – dedica la parte finale all'approfondimento della questione ambientale. Negli anni, sull'argomento, si sono dette e scritte molte cose. La SEI S.p.A., fin dalla prima stesura del progetto, ha dichiarato di attribuire estrema importanza alla tematica dell'inquinamento e alla sua compatibilità con le disposizioni europee in tema di riduzione dei gas serra, decidendo pertanto di predisporre la Centrale per la tecnologia CSS, che "consentirebbe un futuro recupero e stoccaggio dell'anidride carbonica". L'obiezione dei redattori dell'istanza di ricorso si articola, sostanzialmente, in due punti: il primo dei quali palesa - per stessa ammissione del proponente - che almeno per la fase iniziale di funzionamento della centrale non è prevista la cattura e la compressione della C02. "Tale soluzione viene considerata come ipotesi "base", in quanto il confinamento/stoccaggio dell'anidride carbonica prodotta dalla combustione di fonti fossili (carbon capture and storage o CSS) è considerato dall'Unione europea opzione indispensabile  – quantomeno nel lungo periodo – per il successo delle politiche di mitigazione del cambiamento climatico. Tutto ciò, però, nella piena consapevolezza dell'attuale mancanza di una "tecnologia sperimentata dal punto di vista tecnologico". Il secondo punto contesta l'effettiva applicabilità del CSS: "Una  chiara definizione di tale tecnologia si trova sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico, ove si legge: lo stoccaggio geologico del biossido di carbonio consiste nella iniezione, in formazioni geologiche profonde o giacimenti esauriti di idrocarburi, della CO2 liquida ottenuta dalla cattura delle emissioni di centrali elettriche a combustibili fossili e da altri grandi impianti industriali. Se, già all'epoca di emissione del parere della Commissione tecnica, la formula "pro futuro" poteva sembrare quantomeno evanescente data la mancanza di un qualsiasi concreto studio, appare oggi del tutto irragionevole in quanto il progetto di stoccaggio del biossido di carbonio non potrà mai essere realizzato. Quanto proposto dalla SEI, e assentito dal Ministero, è irrealizzabile perché vietato espressamente dalla legge e, vietato dalla legge, perché pericoloso, senza deroga alcuna. Infatti, il decreto legislativo n. 162 del 14 settembre 2011 "Attuazione della direttiva 2009/31/CE in materia di stoccaggio geologico del biossido di carbonio", dispone all'art. 7 comma 10 che "Sono esclusi dallo stoccaggio di CO2 i Comuni classificati in zona sismica 1". Ebbene, il comune di Montebello Jonico è in piena zona sismica 1, ma lo sono tutti i comuni limitrofi interessati dalle opere di collegamento e, più in generale, come emerge dalla pianta della protezione civile, quasi tutta la Regione Calabria, come peraltro noto".

"Ciò considerato – concludono gli avvocati - non si può non notare come del tutto assente sia una concreta progettualità, e una conseguente totale indeterminatezza, in relazione alle effettive quantità di CO2 che la Centrale di Saline Joniche è destinata a immettere nell'atmosfera, anche in considerazione della non irrilevante circostanza che la presunta entrata in esercizio dell'impianto avverrebbe proprio a ridosso del 2020, termine entro il quale l'Italia è impegnata a conseguire i risultati previsti dalle direttive europee (peraltro recepite nel nostro ordinamento) in tema di immissioni di gas serra, nel rispetto degli obblighi comunitari e del principio di leale cooperazione".

Sarà questo il colpo di grazia? Il provvedimento che chiuderà i conti con la centrale a carbone di Saline Joniche? Forse sì, forse no. Poiché la SEI difficilmente desisterà dal suo ambizioso progetto, ormai è una questione di principio: un "principio - vagamente - coloniale".