Illustre dottor Praticò, l'unica società affossata è stata la Reggina Calcio

praticostoriadi Paolo Ficara - Aprile 2015. Per riconoscere i propri errori serve buona (se non ottima) memoria, unita ad altri elevati valori morali. Il periodo nel quale, da queste colonne, abbiamo presuntuosamente tuonato che nessuno avrebbe potuto fare peggio rispetto all'ultima versione di Foti, ci è rimasto impresso. Nei successivi tre anni e mezzo, raramente sono mancati momenti in grado di farcela ricordare, quella presa di posizione.

Altrettanto di rado, abbiamo metaforicamente evitato di prendere la rincorsa. Prima di picchiare la testa contro il muro.

Ci attendevamo che nessuno potesse fare peggio, con ovvio riferimento ai risultati sportivi. In altre piazze, la ripartenza del calcio è stata talvolta accompagnata da entusiasmo, afflato, risorse e scalate di categorie. Accadde persino a Reggio Calabria, nella seconda metà degli anni '80. Se oggi volessimo far finta o che non esistano i problemi relativi a identità, strutture e livello minimo monetario, oppure che siano tutte colpe addebitabili a chissà quale forza oscura, la realtà parlerebbe pur sempre chiaro.

La realtà dice che sul campo, al di là dell'isolata gioia del 30 maggio 2015, l'ultimo momento di grosso coinvolgimento popolare per un obiettivo importante risale al 2011. Al playoff col Novara. Un playoff per tornare in Serie A. Una dimensione che la Reggina Calcio ha fatto vivere alla nostra città per un lungo periodo. Portandoci ad ammirare dal vivo non l'epoca di Frosinone o Sassuolo, con tutto il rispetto per chi con merito e risorse si gode oggi la massima serie, bensì le giocate di quei marziani che rendevano il campionato molto più difficile e competitivo di quello attuale.

Ad oggi, nella povertà di un contesto calcistico nazionale che trova in Serie C innumerevoli situazioni con pezze ad altezza terga, qualora per un attimo volessimo dimenticare tutti i guai extra (dal marchio alla fidejussione), ci troveremmo davanti ad un contesto tecnico in cui evitare la retrocessione (sul campo) in D viene spacciato come enorme sacrificio. Da tre anni. Con tanto di continui rimbrotti rivolti a chissà chi.

Al dottor Demetrio Praticò, oggi, non vogliamo dire nulla che risulti trito e ritrito, come concetto. Da un lato, come qualcuno ci ha insegnato, nella vita come nello sport non vanno trovati alibi. Dunque, una volta tanto, non ci va di metterlo in croce per l'evidente disgregazione ed il clima di astio che lascerà in eredità ad una tifoseria, il giorno in cui si farà volente o nolente da parte. Vogliamo solo sottolineargli due aspetti.

Il primo, è quello sportivo. Laddove il calcio, per un popolo, sia inteso come quel momento in cui ci si dimentica dei problemi quotidiani, andando a provare emozione se non soddisfazione per una palla che rotola, gli facciamo notare che da giugno 2015 le uniche emozioni al "Granillo" le ha regalate Leggende Amaranto. Organizzando due partite a scopo benefico, e riportando in città dei monumenti umani. Per il resto, fa eccezione l'effimero gol di Porcino sotto la Sud contro il Messina.

Sì dottor Praticò. Perché se oggi la sua società, dopo aver goduto di una delle migliori piazze dell'intera Serie C per numero di abbonati e presenze medie sugli spalti, fosse stata in grado di offrire una squadra degna almeno del percorso storico pre-Foti (ossia lottare per il vertice in C), oggi non ci sarebbe Dispaccio o altro nemico immaginario che tenga. La gente se ne fregherebbe del Sant'Agata, o di ipotetiche problematiche legate ai pagamenti. Il pallone che gonfia la rete, in Italia, è la seconda cosa che tira di più. Ma è forse la prima che fa guadagnare consensi.

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Questo grosso problema, dottor Praticò, rappresenta l'essenza del rapporto tra squadra di calcio e tifoseria a Reggio Calabria. E nessuna lamentela potrà mai risolverlo. Siccome non le riconosciamo l'adeguata capacità per venire a monte di questo problema, ossia la costruzione di una squadra competitiva almeno per il vertice in C, da queste colonne abbiamo più volte auspicato e sollecitato la sua dipartita, nel senso poetico del termine. Ben prima che perdesse il marchio o le strutture.

Se lei ha capito che è questo, e solo questo, il motivo per cui abbiamo scritto e continueremo a scrivere ogni tipo di valutazione nell'ottica dell'avvento di un diverso contesto societario legato alla Reggina, allora è libero di usare i termini che preferisce. Se per lei, ciò equivale a "buttare giù la società", cosa dirle, ognuno ha il proprio modo di esprimersi. I suoi modi forse esasperano gli animi, ma non possiamo di certo sperare di cambiare il carattere di un 70enne. Se invece ritiene che istituzioni ed opinione pubblica presi in generale possano nutrire interessi di altra portata e dinamica, al di là dell'isolato spirito vendicativo di qualche suo ex dipendente, la invitiamo una volta per tutte a spiegarci cosa ci guadagneremmo, in senso spirituale e/o materiale, qualora la sua società andasse in malora.

Nell'imprimere alla sua srl il proprio naturale percorso non necessita di aiuto alcuno, né dalle istituzioni né dai media. Nella misura in cui alla Finworld non l'ha di certo consigliato il sindaco di rivolgersi, né tantomeno è stato il Dispaccio a costringere Girella a prendersi marchio e Sant'Agata, o Leggende Amaranto ad obbligare la Commissione di Vigilanza a revocare l'agibilità.

L'unica società affossata è stata la Reggina Calcio. Messa in ginocchio dallo stesso Presidente che l'ha portata in alto e ce l'ha anche tenuta per diverso tempo. Ma affossata da chi ha fatto solo la mossa di mettere la mano in tasca, accattivandosi la piazza per poi preferire altri percorsi. Il cartellino di Di Lorenzo oggi è quotato 6 milioni, ci fermiamo qui. Nonché, nel momento in cui provava con tutte le sue forze ad evitare il fallimento, da un provvedimento giudiziario che faceva scaturire la chiusura del Sant'Agata per soli otto mesi.

Indietro non si può tornare, ma oggi è doveroso guardare avanti. Per costruire il futuro serve comprendere sia il presente che il pregresso, ma serve anche il giusto livello morale per procedere a testa alta. Foti lo abbiamo messo in croce. La nostra parte, da queste colonne, la facciamo sempre. Senza guardare in faccia nessuno. Ma anche sbagliando, come in quell'aprile del 2015.